Il triennio del cda Rai è agli sgoccioli e imperversano ovviamente gli inciuci del “rinnovo”. Ma proprio nel mezzo dei rituali clandestini sono arrivati un colpo di cannone, un rintocco di campana e un inno nazionale (non il nostro).

Freedom Act

La cannonata si chiama Freedom Act, un regolamento dell’Unione europea varato in via definitiva il 13 di marzo (con voto contrario o astensione di Lega e Fratelli d’Italia) per divenire legge immediatamente senza bisogno che ciascuno Stato Ue lo faccia proprio, perché già frutto della convergenza fra Commissione, governi e parlamento. Il regolamento fissa molte garanzie a tutela di una informazione libera e non ricattabile e indica in particolare le condizioni minime di garanzia di un servizio pubblico mediale.

Il risultato è che di punto in bianco la Rai si trova fuori legge a causa della sua notoria e comprovata non indipendenza, frutto delle fonti, dei criteri e delle procedure di nomina dei vertici, nonché dei ricatti cui è sottoposta mettendone sempre più spesso in discussione le risorse. Col risultato di un profilo editoriale dell’informazione derivante da strutture ripartite per visioni e favori di fazione che ovviamente non somiglia neppure da lontano all’informare imparziale, complesso e plurale prospettato dall’art 5 del regolamento europeo come carattere essenziale di un pubblico servizio informativo.

Papa

Il rintocco di campana si è sentito poco dopo (23 marzo) a opera di Francesco, il papa, che incontrando i vertici Rai per benedire il settantennio dell’azienda, anziché limitarsi all’aspersorio, ha ragionato sulla missione di un servizio pubblico «tutto da costruire … (oggi che) … ogni vita è sempre più connessa con le altre, a livello globale».

E dove «Servizio è il rovescio del servirsi» sicché è d’obbligo impegnarsi per una verità «una ma armonica», percepita «ascoltando la varietà delle voci» e non contrabbandando proiezioni di «interessi personali». Il contrario, a dirla in breve e con parole nostre, del patto lottizzatorio che funge da ormeggio per la Rai.

Bbc

L’inno nazionale è quello inglese che trasuda dalle 11 cartelle con cui (26 marzo) il direttore della Bbc ha delineato la Bbc del futuro, forte della sua riconosciuta obiettività nell’informazione, della regia di sistema che ha reso grande l’audiovisivo d’oltre Manica e del formidabile soft power che tutto questo, e da decenni, assicura al Regno Unito.

Merito, sottolineato almeno due volte per cartella, della indipendenza rispetto a parlamenti, governi e mercato, in grazia delle procedure iper garantiste che designano i vertici di quell’ente da gran tempo e che non sarebbe, tecnicamente, difficile imitare. Un vertice che è dotato di visione propria e che parla, per così dire, ex cathedra, rivendicando il ruolo che si prefigge, a colpi di buona informazione, per trattenere la democrazia inglese dalla zuffa generale e risparmiare all’Inghilterra, detto papale papale, la deriva di contrapposizione frontale alimentata dai media in Usa. Risultati, visione e postura che, in breve e con parole nostre, dimostra che un altro livello di servizio pubblico è possibile rispetto a quello che il destino ci ha donato in sorte.

Che fare? È la domanda che in queste ore ci piace pensare sfondi le porte turbando le digestioni dei fantini lottizzatori del Cavallo. Non dubitiamo che il regolamento Ue basti e avanzi per farli trovare spalle al muro. Possono: a) tirare diritto, spartire come sempre e sperare che la gente abbia altro da pensare, ma allestendo un potere già illegittimo alla nascita e quanto mai esposto agli esposti e agli inciampi giudiziari; b) accettare il cambio di prospettiva, cercare una soluzione-ponte e predisporre una legge di riforma del servizio pubblico a tutela dell’autonomia dell’azienda che lo svolge. Procedure di nomina, natura delle risorse, prospettive temporali adeguate a pensare in grande. Il tempo disponibile è quello dei quindici mesi previsti dallo stesso regolamento Ue per aggiustare quanto da oggi non è più legittimo in questa o quella situazione nazionale.

La dipendenza della Rai

Resta il fatto, è necessario aggiungere, che il solo parlare di riforma della Rai è temerario perché l’indipendenza (da politica e mercato), ovvero il fulcro del discorso, in Rai non c’è mai stata e tanto meno è stata rivendicata. L’Eiar del Ventennio era al servizio del regime, l’aziendalismo del primissimo Dopoguerra ebbe vita breve perché, forse a ragione, considerato economicismo rispetto al primato della politica dal cattolicesimo militante che esprimeva allora una qualche egemonia. Ma quel primato divenne un alibi per tutto, tanto più col sopravvenire spartitorio di altri partiti vecchi e “nuovi”, ciascuno a cercare il proprio lotto perché quello si era instaurato come unico modo di “esserci” in azienda.

È vero che a dispetto di tutto questo non sono mancati momenti di comunicazione sia utile che bella, ma erano frutto di circostanze e non di impostazione strutturale dell’azienda. Molte sono state le personalità di gran valore e dotate di astuzia, competenza e coraggio per risultare di fatto indipendenti (pensando a un Guglielmi visto molto da vicino). Ma, insomma, si è trattato, quando è accaduto, di qualità di singoli e non di un frutto dell’insieme. Per questo nei corridoi di Viale Mazzini e negli studi è tutto un ridirsi che ci vorrebbero gli uomini d’un tempo. Ma il problema della Rai deriva dalla struttura (a partire dalla sua mancata indipendenza) e non da singole persone, anche se talvolta c’è da perder la pazienza.

E comunque, pur con tutte le cautele, è il momento, fra regolamenti, moniti papali e buoni esempi, di tenere d’occhio le scelte dei partiti alle prese, come raramente accade, con un gioco che lascia poco spazio alle manfrine. E se qualcuno insiste perché è tutto quello che sa fare è augurabile che ne paghi il prezzo quanto a pubblica stima e voti elettorali.

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