Il governo fa cassa sulle spalle dei lavoratori per attuare la riforma delle pensioni di quota 103: in particolare vengono colpiti quelli delle aziende in affanno. A pagare gran parte del conto, infatti, sono i dipendenti delle piccole e medie imprese in crisi, prossimi al pensionamento, per cui appena dodici mesi fa era stata introdotta una misura ad hoc con uno stanziamento complessivo di 550 milioni di euro per tre anni. Il plafond avrebbe coperto le esigenze dal 2022 al 2024.

Pagano i lavoratori

La norma prevedeva la dotazione per garantire uno scivolo verso l’uscita dal lavoro in casi di conclamata difficoltà aziendale. Le risorse sono state però cancellate nella legge di Bilancio del governo Meloni, in esame in commissione Bilancio alla Camera in questi giorni. Un intervento chirurgico nella parte riferita alle nuove norme per accedere alla pensione, volute dal centrodestra. Insomma, con un tratto di penna su una legge già in vigore sono state drenate centinaia di milioni di euro che fanno comodo alla realizzazione di quota 103.

Secondo le stime contenute nella relazione tecnica della legge di Bilancio, infatti, la misura comporterà una spesa, esclusi l’incremento delle pensioni minime e la propria dell’Ape sociale, di 571 milioni di euro per il 2023. La copertura della riforma arriva così sulle spalle delle piccole e medie imprese in debito d’ossigeno e soprattutto dei loro dipendenti. Certo, per il 2024 occorrerà reperire il miliardo e 182 milioni di euro stimato di ulteriori costi aggiuntivi. Intanto, per il prossimo anno è stata messa la toppa: il resto si vedrà alla prossima Legge di Bilancio.

Uscita anticipata

Nella foto Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti (Agf)

Ma di cosa si parla nello specifico? Il governo Draghi, nella manovra per il 2022, aveva inserito un apposito fondo gestito dal ministero dello Sviluppo economico, all’epoca guidato da Giancarlo Giorgetti. Nel dettaglio era stata prevista «una dotazione di 150 milioni di euro per l’anno 2022» a cui si aggiungevano altri «200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023 e 2024».

L’obiettivo, come recita il testo ufficiale, era quello di «favorire l’uscita anticipata dal lavoro, su base convenzionale, dei lavoratori dipendenti di piccole e medie imprese in crisi», con il requisito di aver raggiunto i 62 anni. Era una delle misure approntate a palazzo Chigi, in seguito al confronto con le parti sociali, per tendere una mano alle situazioni più delicate. Insomma, non certo la tipica imboscata parlamentare relativa a un intervento secondario.

L’attesa per il decreto

La modalità di impiego delle risorse doveva essere definita, entro la fine di febbraio scorso, con un decreto attuativo redatto dal Mise, in accordo con il ministero dell’Economia, in quella fase sotto l’egida di Daniele Franco, e del ministero del Lavoro, che vedeva al vertice Andrea Orlando. La responsabilità principale ricadeva comunque sulle spalle di Giorgetti, che avrebbe dovuto definire la cornice entro cui operare.

Dal testo non emergevano i criteri di identificazione di definizioni o anche di dimensione delle aziende interessate dal provvedimento. Stando alla formulazione si era ipotizzato che potesse riguardare imprese con meno di 50 lavoratori. E soprattutto occorreva tracciare il perimetro per la definizione di “crisi”. La scadenza prevista è stata ampiamente oltrepassata, finta nel mare magnum dei decreti attuativi mai ultimati.

A metà giugno si era accesa una speranza: era circolata l’indiscrezione di un’imminente emanazione del provvedimento per rendere esecutiva la norma. Tuttavia, è trascorso un altro mese, senza cambiamento. Nel frattempo c’è stata la crisi del governo Draghi e la macchina si è definitivamente fermata, lasciando nel cassetto i 150 milioni di euro già a disposizione per il 2022 a favore dello scivolo verso il pensionamento. Dopo l’insediamento del nuovo esecutivo non si sono registrate novità, anzi a novembre il plafond è stato usato per prolungare il blocco delle accise sui carburanti.

Risorse in quota 103

Il tutto mentre gli over 62, impiegati in società sull’orlo del collasso, hanno atteso vanamente qualche informazione che li potesse riguardare. Con l’attuale formulazione della legge di Bilancio, il capitolo sta per chiudersi definitivamente.

I 550 milioni di euro vengono inghiottiti da quota 103. E, alla fine di questo percorso, torna la figura di Giorgetti, che non ha impiegato quei soldi da ministro dello Sviluppo economico. Mentre ora, nelle vesti di ministro dell’Economia e delle finanze, decide di eliminarle in via definitiva.

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