Sono giorni di fuoco per Giorgia Meloni. Con il voto negativo alla ratifica del Mes in parlamento, la premier sa di aver oltrepassato il suo personale Rubicone nei rapporti con l’Unione europea.

Quel no, che Fratelli d’Italia ha prima rivendicato e poi minimizzato, ma che nei fatti è stato una vittoria dell’ala più sovranista della Lega, è un passaggio di non ritorno che segna tutta la strategia di Meloni in vista delle elezioni del prossimo giugno.

La premier è perfettamente al corrente – come le ha anche ricordato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – che le cancellerie europee non le perdoneranno facilmente la scelta estrema di bloccare la ratifica del Mes che, a cascata, vincola anche gli altri paesi. Eppure ha ritenuto che fosse comunque la mossa migliore.

Da creatura politica e soprattutto macchina elettorale, ogni sua riflessione contingente è strettamente connessa alle elezioni europee. La scelta dello strappo è maturata una volta capito che la Lega non si sarebbe mai rimangiata il no al Mes. E che, se lei avesse scelto di ratificarlo, Matteo Salvini avrebbe giocato una campagna elettorale tutta contro il voltafaccia di Fratelli d’Italia. Alle pressioni esterne provenienti dall’Europa, Meloni ha quindi preferito anteporre la possibilità di disinnescare i rischi interni.

Il no al Mes è servito a togliere un’arma a Salvini, ma ha caricato quelle dei suoi colleghi e avversari europei, che ora la considerano inaffidabile nel rispetto degli impegni presi. Inoltre, ha incrinato anche le convergenze che stavano maturando sottotraccia con l’ala più conservatrice del Partito popolare europeo, a cui Meloni stava lavorando nell’ottica di essere la regista di un nuovo equilibrio in Ue.

La scommessa

Messa all’angolo, la premier ha scelto di privilegiare la sua coerenza in Italia rispetto alla credibilità che si è faticosamente costruita in Europa. E in questo scenario così in bilico, ha puntato ancora una volta sull’unica persona di cui davvero si fida: sé stessa.

Ormai la scelta di candidarsi alle europee in prima persona in tutte le circoscrizioni elettorali è sostanzialmente presa e il no al Mes è utile all’interesse elettorale di Meloni in vista della sua competizione interna al centrodestra con Salvini.

La premier tornerà a chiedere agli italiani di darle fiducia, sperando che il vento conservatore soffi forte anche in Europa. Se così sarà, a giugno – di nuovo legittimata come leader in Italia – proverà ad accreditarsi come perno attorno a cui costruire una nuova alleanza anche nell’Unione europea, magari sempre con l’egemonia del Partito popolare ma tagliando fuori il Partito socialista europeo.

In uno scacchiere così mutato, anche il no italiano al Mes acquisirebbe un peso diverso. O meglio: tanto più forte sarà Meloni nel contesto della nuova geografia politica, tanto più quel no sarà perdonabile.

Addirittura, come hanno paventato fonti di palazzo Chigi dopo il voto della Camera, potrebbe anche esserci spazio per quella che viene definita «l'occasione per avviare una riflessione in sede europea su nuove ed eventuali modifiche al trattato, più utili all’intera Eurozona».

In altre parole, il no al Mes – apparentemente miope e con vantaggi solo elettorali nel breve termine – sarebbe la leva per aprire un nuovo scenario europeo in cui la mancata ratifica del Mes smetta di essere un’onta.

I rischi

L’azzardo, però, è pericoloso anche perché il concretizzarsi di questo scenario non dipende esclusivamente dal successo di Meloni. Se anche l’exploit in Italia riuscisse, la sorte della prossima Commissione europea è legata a ciò che accadrà negli altri 26 paesi e gli ultimi esiti elettorali non hanno dato certezze sullo sfondamento dei movimenti conservatori e nazionalisti.

Quella di FdI potrebbe quindi essere una vittoria di Pirro: grandi numeri in Italia, ma isolamento europeo nel caso in cui nel Ppe non prevalga la frangia più vicina alle destre e le forze progressiste del Pse reggano, tanto da aprire la strada a una nuova ipotesi di “maggioranza Ursula”.

Non è solo Meloni, infatti, a fare calcoli in vista delle europee. Pur se fortemente smentita, l’ipotesi di Mario Draghi come possibile futuro vertice della Commissione sponsorizzato dalla Francia di Emmanuel Macron racconta di un lavoro nel campo centrista che trova convergenze in quello progressista.

Nel caso di una marginalizzazione di Meloni dopo le europee, due conseguenze saranno inevitabili. Il no al Mes peserà come un macigno sull’affidabilità italiana presso i partner europei e le mancate conseguenze di oggi si paleseranno nel post elezioni. Ma soprattutto, in caso di irrilevanza in Europa, Meloni e l’Italia non avranno alcun titolo per rivendicare l’indicazione di un commissario europeo di peso. Il posto è ambito (si sarebbero fatti avanti già nomi del calibro dei ministri Raffaele Fitto, Francesco Lollobrigida e Adolfo Urso) ma totalmente legato ai futuri equilibri in commissione e al potere contrattuale che avrà la premier italiana.

Quel che è certo è che, nella scelta del no al Mes, un ragionamento di ampio interesse nazionale è stato subordinato alle esigenze elettorali della maggioranza. Il peso di questo no sarà variabile a seconda di cosa accadrà a giugno, secondo il vecchio adagio del “o la va o la spacca”. In questa scommessa, però, non è in gioco solo il futuro politico di Meloni ma anche quello dell’Italia.

© Riproduzione riservata