Matteo Renzi considera l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella uno dei suoi capolavori politici e punta a essere il regista occulto anche della scelta del suo successore. Del resto, specialmente ora, la partita del Colle è determinante perché da essa dipendono sia la sopravvivenza del governo Draghi sia, a discendere, la fiducia a livello europeo e internazionale dell’Italia.

«Tutti i leader politici partono da una domanda: quale profilo serve oggi alla Repubblica? Prima si traccia il profilo, poi si sceglie l’interprete», spiega un giurista esperto di dinamiche quirinalizie. Attualmente, lo spartiacque è la figura di Mario Draghi. Chi lo vuole al Colle ritiene che la priorità del paese sia la gestione dei fondi che sono arrivati e arriveranno dall’Unione europea: il capo dello stato deve essere il garante del patto europeo e vigilare sulla ricostruzione dell’economia italiana all’interno del quadro comunitario.

Renzi invece sarebbe di tutt’altro orientamento. Convinto che serva un profilo che guardi già alla fase politica successiva al Next generation Eu, l’ex premier starebbe lavorando per portare al Quirinale una figura che rappresenti il primato della politica rispetto all’economia. Tradotto: Draghi sta bene a palazzo Chigi. A terminare il lavoro sul Pnrr, ma soprattutto a portare avanti la legislatura fino alla sua naturale conclusione, scongiurando elezioni anticipate che decimerebbero le truppe renziane e aprirebbero una nuova fase politica, fatta di rapporti di forza che – stando ai sondaggi – vedono Italia viva relegata all’irrilevanza quantomeno numerica.

L’operazione Mattarella

L’intenzione allora è essere il regista di un’operazione politica che porti al Quirinale un nome diverso da quello di Draghi, che nel silenzio complessivo è comunque considerato favorito. Per farlo servirebbe una replica di quanto fatto nel 2015, dopo il bis di Giorgio Napolitano.

Certo, le condizioni erano diverse. All’epoca Renzi era segretario del Partito democratico e premier, la partita del Colle era complicata dall’esistenza del patto del Nazareno tra il Pd e Forza Italia. Un patto di governo «per le riforme costituzionali» ma che, secondo il presidente del Consiglio, non comprendeva anche l’elezione del nuovo capo dello stato e che, proprio sull’elezione di Mattarella, ha inizia a incrinarsi. Nel mezzo c’era da superare l’ostacolo di un Pd dilaniato dallo scontro interno.

I racconti divergono a seconda dei protagonisti, ma il leader di Italia viva lo ha raccontato pubblicamente nel suo libro Avanti!: durante un incontro prima del voto, Berlusconi avrebbe detto a Renzi di non preoccuparsi per il Quirinale, perché lui aveva già avuto una lunga conversazione con Massimo D’Alema – leader della minoranza dem – e un nome di mediazione era già stato trovato. Secondo le ricostruzioni dell’epoca il nome era quello del giurista Giuliano Amato: competente e di alto profilo, ma a quel punto inaccettabile per Renzi. Votarlo significava farsi dettare la linea dalla minoranza sulla partita più delicata. Così Renzi ha organizzato la sua contromossa: far saltare l’accordo con Forza Italia anche a costo di incrinare il patto di governo, individuando il nome dell’ex ministro della Difesa e giudice costituzionale Sergio Mattarella. Un nome che, per il suo passato nei governi D’Alema e Amato e per storia personale, non poteva non essere gradito al centrosinistra. L’operazione è riuscita alla perfezione. Mattarella è stato eletto senza intoppi al quarto scrutinio, oltre il quale non serve più la maggioranza di due terzi ma basta quella assoluta, anche con i voti del Nuovo centrodestra, il partito di Angelino Alfano.

Oggi l’obiettivo è lo stesso: incrinare eventuali accordi maturati nelle complicate geometrie di questa maggioranza e far scattare la trappola di un candidato con un profilo che renda difficile sia per il centrodestra sia per il centrosinistra dire di no.

Le regole per fissare il candidato tipo sono un elenco non scritto a cui tutti i leader politici fanno riferimento. Alcune sono superate, come il principio dell’alternanza tra presidente laico e presidente cattolico. Secondo questa prassi il nuovo capo dello stato dovrebbe essere laico ma la scansione, figlia della prima Repubblica e della Guerra fredda, oggi è considerata trascurabile. Altre rimangono determinanti, come il peso simbolico del genere: sponsorizzare una candidata è rischioso, ma se l’elezione andasse in porto il regista dell’operazione entrerebbe nella storia del paese diventando colui che ha contribuito a portare la prima donna al Quirinale.

Una variabile recente, invece, è il peso delle autonomie locali. Normalmente il presidente della Repubblica è espressione di dinamiche politiche nazionali e i rappresentanti delle regioni che integrano il collegio degli elettori sono sempre stati considerati poco rilevanti. Oggi, invece, proprio questi voti potrebbero risultare determinanti sia per la maggiore autonomia e peso politico delle regioni dopo la gestione della pandemia sia per il fatto che per la prima volta i numeri sono in favore del centrodestra.

L’opzione Cartabia

In quest’ottica i nomi graditi a Renzi, stando alle ricostruzioni giornalistiche, sarebbero quelli di due donne passate per il ministero della Giustizia: la ex guardasigilli Paola Severino e l’attuale ministra, Marta Cartabia. Molti giornali stanno scommettendo soprattutto su quest’ultima: considerata candidata naturale sin dal momento della sua nomina a via Arenula, Cartabia gode di un rapporto privilegiato con Draghi in ottica di stabilità del governo ma anche con lo stesso Mattarella, di cui è stata collega alla Corte costituzionale. In realtà, chi con Renzi ha una frequentazione stretta dice che «il nome di Cartabia lui non lo ha mai pronunciato, né in privato né con i suoi parlamentari».

La sua elezione, infatti, sarebbe considerata complicata per ragioni sia politiche che istituzionali. Sul fronte politico, su un profilo tecnico come quello di Cartabia potrebbero convergere il Pd e anche buona parte del centrodestra. Tuttavia i prossimi mesi non le permetteranno di tenere il profilo basso che servirebbe a una quirinabile: a settembre e ottobre arriveranno in aula il ddl penale, civile e la riforma del Csm e la guardasigilli dovrà cercare di farli approvare entro la fine dell’anno. Si tratta di riforme complicate e certamente divisive, in cui potrebbe anche essere necessaria la fiducia. Inoltre contro di lei potrebbero muoversi sia il Movimento 5 stelle, visto che Cartabia ha riscritto la riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede, sia la magistratura associata. Il presidente della Repubblica è colui che presiede il Csm, il testo definitivo della riforma che riguarda l’organo di governo autonomo dei magistrati determinerà l’appoggio, indiretto, che la categoria darà o meno alla ministra nella corsa al Colle.

Anche sul fronte istituzionale la nomina al Quirinale di una ministra in carica sarebbe un’eccezione. Il caso più recente è quello di Carlo Azeglio Ciampi, ministro dell’Economia del governo D’Alema ed eletto al primo voto con maggioranza qualificata. Così dovrebbe essere anche per Cartabia, almeno per non minare la sua credibilità, ma si tratta di una convergenza difficile da creare.

L’opzione Casini

Più possibilità, invece, le avrebbe il sempreverde Pier Ferdinando Casini, che ha festeggiato la decima legislatura consecutiva in parlamento e ha nel suo curriculum il ruolo di presidente della Camera, che lo rende automaticamente quirinabile. Su di lui sarebbe più facile costruire una maggioranza ampia: ha centrato la sua decima elezione candidandosi e con la lista del Pd, ma con l’Udc è stato parte integrante dell’alleanza di centrodestra dei governi Berlusconi. Inoltre, a differenza di Cartabia, può adagiarsi e rimanere sottotraccia fino a febbraio e, al momento del voto, potrebbe tranquillamente rimanere in lizza anche dopo più votazioni.

Il suo nome è stato pronunciato più volte in ambienti renziani proprio in ottica di un asse con il centrodestra. «Se Renzi vuole essere ancora l’ago politico della bilancia è più facile trovare un candidato condiviso con il centrodestra», spiega un dirigente di Iv, «per una banale questione di numeri: se scegliesse Pd e Cinque stelle, la maggioranza sarebbe di una decina di voti e il voto segreto potrebbe far risvegliare i soliti franchi tiratori dentro il Pd. Troppo pochi per sperare di essere determinante nell’elezione».

Tuttavia nemmeno con i suoi più stretti collaboratori Renzi si è sbottonato sull’argomento Colle. Anzi, «se ha già un nome in testa non lo ha fatto nemmeno alla madre e, quando lo avrà, lo terrà segreto fino all’ultimo».

 

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