Con il trasferimento in Italia di Chico Forti, Giorgia Meloni incassa una chiara vittoria diplomatica studiata per mostrare con i fatti il suo affiatamento con gli Stati Uniti. L’italiano - condannato all’ergastolo in Florida per un omicidio del quale si è sempre dichiarato innocente e dopo un processo con alcune falle dal punto di vista delle garanzie all’imputato – era in carcere da 24 anni e tornerà in Italia, dove potrà rivedere la madre novantaseienne.

Il trasferimento

Il trasferimento avverrà nelle prossime settimane e bisognerà aspettare la conclusione della procedura americana: il governatore repubblicano della Florida Ron De Santis ha dato l’ordine di trasferire Forti dal carcere statale in cui è detenuto ad uno federale. Poi il ministero della Giustizia americano trasmetterà al suo omologo italiano la sentenza di condanna e la documentazione necessaria per il trasferimento. Poi toccherà a via Arenula attivare l’autorità giudiziaria italiana che dovrà riconoscere e dare esecuzione alla sentenza. Solo in quel momento si conoscerà in quale carcere italiano Forti verrà trasferito: qui sconterà la pena inflitta dai giudici americani, ma sulla base delle norme italiane. Che, per esempio, permettono a certe condizioni il lavoro all’aperto e anche di accedere ad alcuni benefici.

Il caso Forti è stato all’attenzione di diversi governi italiani che hanno lavorato insieme alla diplomazia per ottenere il trasferimento. Nel 2020, anche l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva annunciato l’imminente rientro in Italia del detenuto, che però non è mai avvenuta. Anche la ministra del governo Draghi Marta Cartabia nel 2021 si era mossa, fornendo al suo omologo americano - autorità cui è spettata la decisione finale sul caso dopo aver ottenuto assenso della Florida - i chiarimenti richiesti sul rispetto da parte italiana della convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei detenuti.

Il successo del governo Meloni è passato per una filiera che ha visto coinvolta non solo la premier. Sul lato del governo, prodromici sono stati i contatti del ministro degli Esteri Antonio Tajani con il segretario di Stato Antony Blinken e del ministro della Giustizia Carlo Nordio che in novembre aveva incontrato l'Attorney general, Merrick Garland. In questo incontro, Nordio aveva affrontato l’ostacolo principale: il fatto che Forti fosse stato condannato all’ergastolo without parole, senza diritto alla libertà condizionale e dunque benefici detentivi, simile all’ergastolo ostativo in Italia. Il ministro, però, ha parlato successo «frutto di impegno in prima persona del presidente Meloni», che ha gestito il caso in prima persona. Un ruolo centrale è stato giocato dai consiglieri diplomatici, sia di palazzo Chigi che dell’ambasciatrice italiana a Washington Mariangela Zappia, che ha incassato i complimenti anche del leader Cinque stelle, Giuseppe Conte. L’elemento determinante del lavoro diplomatico è stato quello di fare leva sulla convenzione di Strasburgo, ottenendo su questo il via libera di De Santis che inizialmente era scettico e temeva reazioni negative da parte dell’opinione pubblica americana. 

Il caso Salis

L’indubbio successo di Meloni, che ha profuso un impegno personale e diretto per ottenere il trasferimento di Forti in Italia, rimanda però alla gestione del caso di Ilaria Salis. A differenza di Forti che è stato condannato, la trentanovenne italiana è detenuta in attesa di giudizio in Ungheria da oltre un anno. Il suo caso, scoppiato dopo le fotografie che la vedevano incatenata nell’aula d’udienza di Budapest, ha visto il governo italiano in posizione molto prudente. I legali della donna avevano chiesto di collaborare con il ministero della Giustizia per ottenere che lei scontasse i domiciliari in un appartamento di pertinenza dell’ambasciata in modo da poter poi chiedere il trasferimento in Italia, ma Nordio ha bollato la richiesta come inaccettabile perchè «irrituale».

L’unica richiesta formalmente fatta è stata quella di un processo che rispettasse le garanzie e condizioni detentive dignitose. L’attesa della nuova udienza per Salis, imputata di lesioni aggravate durante un corteo antifascista e di far parte di una rete estremistica, è per fine marzo e per ora niente si muove. Anzi, l’estrema destra ungherese ha cavalcato mediaticamente il caso. «Io credo che l'Italia abbia la storia, il trascorso e il nome per poter essere rispettata in giro per il mondo, possiamo e dobbiamo essere uno stato che si fa rispettare», ha detto il padre di Ilaria, Roberto, esprimendo felicità per il trasferimento di Forti.

La richiesta arriva esplicitamente da Sergio D’Elia, presidente di Nessuno Tocchi Caino: «Siamo felicissimi. Vorrei che vi fosse la stessa determinazione anche nei confronti dell'Ungheria perché sia riportata in Italia, seppure in custodia cautelare, la nostra connazionale Ilaria Salis».

A differenza del caso Forti, su quello di Ilaria Salis il governo italiano è preso tra due fuochi. Da una parte la necessità di risolvere un caso che ha dato scandalo in Italia e che riguarda una detenuta ancora presunta innocente, dall’altra la vicinanza di Meloni all’ungherese Viktor Orban, che tuttavia ha rifiutato con forza e pubblicamente anche di riconoscere che le condizioni detentive di Salis fossero inadeguate. Se quello di Forti è stato un successo della diplomazia e di Meloni, sul caso Salis l’imbarazzo del governo è stato palpabile, a partire dal lungo silenzio della premier dopo che la storia è emersa. Ora l'attesa è per la prossima udienza, ma anche perchè le vie diplomatiche intervengano con la stessa decisione dimostrata nei confronti degli Usa.

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