Cosa c’è di più genovese del sogno di capitanare una nave, di sovrastare i flutti del mare, come altre migliaia di capitani hanno fatto prima di te, ottenendo gli onori del mondo? Dopo il diploma all’istituto nautico san Giorgio, affacciato sul porto vecchio, Imane Kabour voleva entrare all’Accademia navale, si sognava capitana.

«Ho rinunciato perché non avevo la cittadinanza, e sempre perché non avevo la cittadinanza non ho potuto fare il libretto di navigazione italiano che permetteva di essere pagata per il lavoro sulle navi in Italia». Dai 18 ai 22 anni, Imane non ha potuto votare, ha invece dovuto deviare progetti, cambiare prospettive, per il solo fatto di essere arrivata a Genova, dal Marocco, all’età di 8 anni.

Suo fratello maggiore Simohamed è il presidente del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane e lo scorso giugno, a 40 anni, è riuscito a diventare consigliere comunale, il primo di origini straniere. Anche lui per nove anni non ha potuto votare, anche lui si è visto intralciare scelte e ambizioni. Nel 2006, forte di tutti i titoli scolastici collezionati – le elementari, le medie, il liceo, la laurea in lingue, la specializzazione – ha cominciato a insegnare come supplente con la bollinatura del provveditorato agli studi.

Hanno impiegato un mese per dirgli che il permesso di soggiorno non bastava: «Hanno interrotto il contratto e mi hanno depennato dalle graduatorie di terza fascia, è stata una doccia gelata. Entri a scuola e ti dicono “sappi che studierai come gli altri, la scuola è inclusiva”, ma non ti dicono che quando esci non potrai fare questo o quest’altro».

Il professor Kabour, che oggi insegna educazione civica, arabo e lingua francese in un liceo internazionale, ha impiegato tre anni di battaglia legale per vedersi riconoscere posizione e cittadinanza. Nel 2012, poi, si è candidato sindaco con una lista civica anche, ma non solo, per rappresentare i tantissimi italiani nella sua stessa condizione. Oggi sono 5,5 milioni gli stranieri residenti in Italia privi di diritto di cittadinanza e quindi di voto, 1,5 milioni i giovani, 870mila gli studenti: il 25 settembre, ancora una volta, non potranno entrare in un seggio elettorale.

Appesi alla burocrazia

C’è la crudeltà smargiassa della burocrazia in questi destini e quella invece pavida della politica. «Le normali procedure amministrative durano 30 giorni, quella per ottenere la cittadinanza è di 730: una durata abnorme», dice l’avvocato milanese Livio Neri, che ha seguito molti casi di italiani-non italiani sospesi nel limbo.

Questo tempo si aggiunge ad altro tempo senza diritti. Per diventare cittadino, servono dieci anni di soggiorno stabile nel paese, di cui tre anni continuativi con un reddito almeno di 8.500 euro, soglia apparentemente bassa, ma non così bassa se sei un diciottenne che come la maggioranza dei tuoi amici, compagni di squadra e di classe, vorrebbe proseguire gli studi universitari. I requisiti, la residenza ininterrotta e il reddito, devono essere mantenuti per tutto il periodo della procedura. Nella teoria si tratta di due anni, nella realtà è un tempo indefinito.

I decreti Sicurezza del governo gialloverde del 2018 avevano allungato la scadenza a quattro anni, con un impatto enorme sui percorsi di realizzazione delle persone. L’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese li ha riportati formalmente a due anni, «salvo che per qualche motivo si ritenga necessario che la procedura si concluda in tre anni», dando alla burocrazia la possibilità di prendersi un altro anno di vita dei richiedenti. La discrezionalità dell’amministrazione dello stato è ampia.

Uno degli ultimi casi seguiti dall’avvocato Neri riguarda un cittadino dello Sri Lanka: la sua domanda è stata rigettata, nonostante avesse tutti i requisiti, perché il fratello, un individuo altro da lui, era stato processato e già assolto con formula piena per aver partecipato a una raccolta fondi per le tigri del Tamil, il movimento secessionista dello Sri Lanka.

La corte di Assise ha ritenuto non ci fosse alcun reato, ma il fratello solo dopo il ricorso al Tar e altri cinque anni di attesa ha ottenuto l’annullamento del provvedimento di rigetto. Chi chiede un sistema giudiziario pienamente garantista avrebbe l’imbarazzo della scelta a occuparsi delle vite degli italiani senza cittadinanza.

I sei mesi di vita di Omar

Ci sono, però, anche storie drammaticamente più semplici. Le libertà di Omar Neffatti, per esempio, sono state influenzate da una parentesi di appena sei mesi: l’età che aveva quando, neonato, ha raggiunto suo padre a Viterbo dalla Tunisia. La scelta normale di far viaggiare il bambino superata l’età dello svezzamento ha fatto sì che Omar non potesse votare per sei anni.

«Alle elezioni del 2013 cercavo di convincere i miei coetanei titubanti ad andare al voto, lo stesso a cui io non potevo partecipare», racconta oggi che è portavoce del Movimento italiani senza cittadinanza e partecipa alla rete di 40 associazioni che propongono una riforma complessiva del sistema.

«La libertà è partecipazione e allora senza la partecipazione per noi non c’è nemmeno libertà», spiega ricordando di aver ottenuto la cittadinanza solo superati i 23 anni, perché a 18 non aveva i requisiti per essere libero. Per un ragazzo di quella età, dice, basta poco per diventare un “non in regola”: è sufficiente un buco nella residenza, un affitto in nero, un lavoro non pagato.

Non è un caso che quest’estate si parlerà di italiani senza cittadinanza al camping organizzato dalla Unione degli studenti universitari. Impedire ai nuovi italiani di votare significa escludere una popolazione in media giovane, sbilanciare ancora di più il corpo elettorale verso i più anziani.

Una democrazia incompiuta

Se fossimo negli Stati Uniti avremmo già definito tutto questo con termini più chiari: un fenomeno di soppressione del voto, una negazione della pienezza dei diritti politici che alimenta anche la negazione di quelli civili e sociali.

«In mancanza di riconoscimento come soggetto politico, viene a mancare anche la capacità di negoziazione delle proprie istanze con la politica e le istituzioni», dice il professore Kabour. Se non voti, i partiti non hanno bisogno di rispondere ai tuoi bisogni: sei escluso dal corpo democratico, nel senso più ampio del termine, quello della negoziazione degli interessi.

Le storture che ne derivano riguardano tutti. «La legge costringe ad abbandonare scelte proficue per la persona e la collettività», ragiona Kabour, «la classe politica che tentenna e continua a vederci come un corpo al di fuori della comunità rigetta la complessità della realtà, si rivela incapace di lungimiranza».

Un paese anni Settanta

La legge sulla cittadinanza, spiega l’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, è stata concepita «con una logica tipica di uno stato di emigrazione e non di immigrazione, come invece è l’Italia dal 1974».

Il testo porta le firme del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, del ministro degli Esteri Gianni De Michelis e la data del 5 febbraio 1992. Voltiamo le spalle ai princìpi democratici e alla realtà da almeno trent’anni, ora lo facciamo contro un decimo della popolazione.

 

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