Il segretario Pd Enrico Letta, oggi 23 settembre, chiuderà la campagna elettorale a Roma. È stata una strada in salita, per lui. Dove per esempio ha preso atto, ha spiegato ieri ai ragazzi di Fridays for Future, che «se scegli un bus elettrico e quello si ferma, tanti, anziché riflettere sulla transizione ecologica in ritardo, ne fanno occasione di prese in giro. Contro me, non contro la destra del negazionismo climatico»

Segretario, Putin minaccia l’uso del nucleare. Conte dice che lei e Meloni avete aderito alla strategia Usa sulla guerra e ora ci dovete dire come uscirne. Come si ferma l’escalation?

Partendo dai fondamentali. Primo, non è la strategia Usa. È la strategia dell’Europa unita, concordata, per una volta alla pari, con gli alleati del Patto atlantico. L’unico che in Europa la contesta si chiama Viktor Orbán. Secondo, la pace non è resa incondizionata all’aggressore, o inginocchiarsi a un regime che ammazza e bombarda, imprigiona e uccide dissidenti e giornalisti, stupra donne e deporta bambini. Terzo, Putin ora è all’angolo. E, come un animale ferito, è più pericoloso.

Bisogna tenere i nervi saldi e sostenere ogni iniziativa portata avanti dall’Onu e dalla Ue. L’ultima cosa da fare è prendersela con Zelensky, come incredibilmente ha fatto Conte, o cercare attenuanti per la condotta criminale di Mosca.

Una vecchia foto di Putin e Letta divulgata dall'ambasciata russa il 22 settembre

Orbán chiede di cancellare le sanzioni. Meloni e Salvini, al netto di aggiustamenti dell’ultima ora, non hanno la stessa opinione su questo e sull’invasione russa. Anche voi siete divisi. Ma come si spiega che queste divisioni non scalfiscono l’elettorato della destra?

L’elettorato di sinistra è tradizionalmente più attento ed esigente. È la nostra forza, anche se questo spesso rende l’aggregazione del consenso più faticosa. Quanto all’elettorato di destra, c’è un messaggio che fatica a passare: il ricatto di Putin lo paghiamo tutti come cittadini. E più proseguono le ambiguità di Salvini, Berlusconi e anche Meloni sulla reazione europea a Mosca, sanzioni in testa, più difficile è per l’Italia conservare voce in capitolo in Europa. Siamo seduti su una polveriera e tanti fingono che non sia così.

Da settimane lei parla di «rimonta». I sondaggi, non più pubblici, non sembrano confermare quest’impressione. Su cosa si basa?

Si basa sul calore e sulla mobilitazione che crescono attorno alla nostra proposta. E sull’evidenza che a salire nel paese è anche la polarizzazione tra destra e sinistra. Aggiungo: com’è naturale che sia. Soprattutto ora che Meloni ha calato la maschera, che torna ai toni minacciosi di Vox, al vittimismo marchio di fabbrica della destra italiana. È chiaro che la scelta è tra “il rosso o il nero”, è o di qua o di là, come ha scritto benissimo sul vostro giornale Piero Ignazi.

Meloni, nei comizi, si dimostra già insofferente alla protesta. Un assaggio per il dopo, o addirittura una minaccia?

È semplicemente un disvelamento. Viene fuori chi è davvero.

È un Pd diverso da quello precedente quello che lei porta al voto?

Sì e no. Il Pd è il Pd, è la sua gente. Il Pd c’è stato, c’è e ci sarà sempre. Non amo quelli che si autocelebrano come il principio e la fine di ogni cosa. Quelli del prima di me era tutto da buttare e dopo di me sarà il diluvio.

Certo, il Pd è una comunità e, come ogni organismo vivente, evolve, resiste o cambia pelle. Quello di oggi è il partito figlio della ricostruzione dopo le lacerazioni del 2018, avviata con Maurizio Martina, rafforzata dal congresso vinto da Nicola Zingaretti e perseguita da me. Soprattutto è un Pd ricompattato al proprio interno e vivificato da un anno di Agorà democratiche. Le nostre liste e le nostre proposte ne sono espressione. È il Pd che ha detto al paese «abbiamo capito», che ha ricominciato a riconquistare città dopo città, che si è dotato di un programma moderno e autenticamente di sinistra.

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Eppure non è riuscito a fare alleanze, anche se lei si presentava come il leader più propenso a farne. Cosa non ha funzionato? E perché M5s ora rimonta al sud?

Io avevo il dovere di provarci fino all’ultimo momento possibile. Come è andata quel 20 luglio lo ha raccontato lei stessa con precisione. Credo che Conte abbia cercato di ricostruirsi una verginità politica last minute. Forse per far dimenticare che il suo è stato l’unico partito al governo nel corso di tutta la legislatura e ciò con tre governi di colore politico diverso, due dei quali guidati proprio da lui. Oggi apre un nuovo capitolo delle sue evoluzioni e si inventa progressista, cavalcando il disagio al sud con un mix di vecchio assistenzialismo e nuovo ribellismo. Va bene tutto, ma non mi si dica che questa è sinistra.

Il suo Pd chiede il salario minimo, mantiene il reddito di cittadinanza, cerca di riallacciare un rapporto con il mondo del lavoro, “supera” il Jobs Act. Schiera ex segretari sindacali, eppure dai sindacati arriva qualche folata di freddezza. Perché?

Non lo so, ma io credo da sempre nell’autonomia del sindacato dal partito e del partito dal sindacato. Fa bene a entrambi e consente di avere un rapporto di dialogo libero e proficuo. Dopo la sbornia della disintermediazione – che ha creato solo guai al paese e, mi lasci dire, solo guai alla sinistra – è salutare non creare sovrapposizioni e rispettarsi, ciascuno nel proprio ruolo. Quanto al rapporto con il mondo del lavoro, non basta ovviamente strizzare l’occhio a questo o quel soggetto, ma bisogna essere credibili nella proposta politica. Il nostro programma lo è, è solido ed è figlio di un ritorno coi piedi per terra, tra le persone, a contatto con il disagio di chi ci chiede protezione sociale e prossimità perché entrambe sono venute oggettivamente meno negli ultimi anni.

Siete stati al governo quasi sempre negli scorsi dieci anni: non rischiate di dovervi intestare un po’ tutto, più nel male che nel bene?

Ammetto che è un problema. Più di percezione che di sostanza. Potrei dirle: io non c’ero, io non sono stato. Visto che per sette di questi dieci anni ero lontano dalla politica attiva. Ma non lo dico perché sono alla guida di una comunità politica e me ne assumo l’onere, oltre che l’onore.

La verità è che in molti degli snodi di questo decennio il Pd si è caricato sulle spalle la responsabilità di risolvere problemi creati da altri, di dire “presente” quando cause di forza maggiore, come la pandemia o il Pnrr, chiamavano alla difesa degli interessi della nazione. Poi, certo, siamo stati anche il partito del potere e spesso siamo ancora percepiti come tale. Ma su questo negli ultimi anni abbiamo fatto un enorme reset. Io oggi guido un grande partito di popolo, la sfida è renderlo ancora più popolare.

Il suo nuovo Pd si deve rimangiare un po’ di scelte del Pd: dal Jobs Act alla riforma renziana della Costituzione. In pratica lei sta proponendo una nuova stagione, anche di cultura politica. Ma quale?

Il Pd deve essere piantato nel tempo che gli è dato di vivere, per citare Aldo Moro. E il tempo che ci è dato di vivere è attraversato da feroci disuguaglianze e da profonde fratture, anche psicologiche. Da solitudine individuale e smarrimento collettivo.

Come può un grande partito di popolo non prenderne atto? Come può restare ancora fuori dai luoghi del conflitto? Non può e non deve. Io contesto con forza chi racconta questa come una involuzione, anche in maniera caricaturale. Vecchio è chi continua a proporre ricette di venti o trenta anni fa. Vecchio è chi vive il riformismo come un fine e non un mezzo per cambiare ciò che non va. Vecchio è chi non vede che dopo dieci anni di crisi drammatiche una sinistra moderna che tende al progresso – inteso come avanzamento, sviluppo e crescita – non può che partire dal lavoro, dalla giustizia sociale, dalla scuola, dalla sostenibilità ambientale, dai diritti.

Nell’Europa dei fondatori la socialdemocrazia è in affanno. Va bene invece in Spagna e in Portogallo, due paesi che hanno fatto scelte molto sociali. Ma non sono, non sembrano, il vostro modello. O no?

In verità l’impianto del nostro programma sul lavoro si ispira esplicitamente all’esperienza spagnola. Però, sui “modelli”, mi lasci dire una parola: basta. Quante ne abbiamo lette in questi decenni sui “modelli”? Zapatero, Blair, Lula, Schröder, gli scandinavi, Corbyn. Infatuazioni periodiche o innamoramenti duri a morire come quello eterno di Renzi per Blair. Ma ha senso? A me pare di no. E mi piace pensare che il Pd sia, da quindici anni ormai, uno dei più grandi partiti di centrosinistra d’Europa e del mondo. E questo è un fatto.

Lei accusa Giorgia Meloni di essere “patriarcale”, ma nel suo Pd una donna alla segreteria, se vogliamo essere sinceri, non è mai stata alla viste.

Che il modello di Meloni sia patriarcale è indiscutibile. Come vogliamo definire altrimenti “Dio, patria e famiglia”? È potuta arrivare alla leadership perché quel modello non l’ha contestato bensì cavalcato. C’è una enorme differenza tra una leadership femminile e una femminista.

Detto questo, che il Pd abbia avuto un problema di scalabilità da parte delle donne è altrettanto innegabile. Ho fatto tutto quel che potevo, chiedendo di cambiare i vertici dei gruppi parlamentari. Ma non nego che molto ancora c’è da fare.

Lei ha visto Scholz, e gli esponenti della Spd, una visita anche contestata dalle destre. La svolta a destra dell’Italia preoccupa l’Europa?

Sì. C’è una preoccupazione comprensibile per l’eventuale vittoria della destra. Perché? Perché a brindare sarebbe Mosca. Soprattutto il timore è che l’Italia finisca a far asse con l’Ungheria. Io sono andato per dire che l’Italia vuole restare protagonista in Ue, al fianco di Francia e Germania. E per spingere per una soluzione rapida alla crisi energetica.

Più passa il tempo più i danni creati nelle democrazie dal ricatto di Putin crescono. E non è una questione solo di politica estera distante dai cittadini. Se rompi con l’Europa, il conto, come dicevo, lo pagano gli italiani. Lo pagano con la recessione, il debito, gli interessi sui mutui, il taglio ai servizi.

Nel suo partito alcuni dirigenti sono sicuri che dopo il voto, e comunque vada, si dovrà riaprire il dialogo con le forze con cui non vi siete alleati. Ma Conte dice che con questi dirigenti Pd, cioè lei, non si siederà più al tavolo. Cosa succederà?

Del “dopo voto” a due giorni dal voto non si parla. Regola aurea.

Il 21 per cento, il 20: dovremmo davvero credere che non si è dato una misura per valutare il risultato?

Nessuna “asticella”, adesso solo impegno e passione per vincere.

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