Il cosiddetto jobs act, la riforma del lavoro operata dal governo Renzi nel 2015, continua a essere oggetto di pronunce della Corte costituzionale che ne “smontano” alcune parti. L’ultima sentenza (la numero 183, depositata il 22 luglio 2022), in materia di licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 15 dipendenti, invita il legislatore a rivedere la complessiva disciplina dei licenziamenti.

Le modifiche da apportare a tale disciplina, «frutto di interventi normativi stratificati», dovranno riguardare «sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie».

La normativa attuale «non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi».

Il contratto a tutele crescenti

È bene fare una breve premessa. Il jobs act disciplina una forma di contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”. Il lavoratore di un’azienda con più di 15 dipendenti (cinque nel caso di azienda agricola) non ha diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ma solo a un indennizzo di natura economica che cresce con l’anzianità di servizio (da qui “tutele crescenti”), pari a due mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo che la norma originaria prevedeva di 4 mensilità fino a un massimo di 24.

Dopo gli interventi operati dal decreto Dignità, ora vanno da sei a 36 mensilità. L’unica eccezione è costituita dal licenziamento discriminatorio, nullo o inefficace. Invece, se i lavoratori sono meno di 15, l’ammontare dell’indennità è dimezzato rispetto a quello fissato per le aziende più grandi «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità». Per i lavoratori assunti con il vecchio contratto a tempo indeterminato, quindi prima del 7 marzo 2015, continua a valere la disciplina previgente.

Le precedenti sentenze della Corte costituzionale

Il primo intervento della Consulta, avvenuto nel 2018 (con la sentenza numero 194), ha ritenuto incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità basato esclusivamente sull’anzianità di servizio, in quanto contrario ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza, nonché in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro.

La Corte ha confermato che il giudice di merito, determinando il valore dell’indennità nel rispetto dell’intervallo temporale fissato dalla legge, debba comunque considerare non solo l'anzianità di servizio, ma anche gli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)».

In continuità con la sentenza del 2018, nel 2020 (sentenza numero 250) i giudici costituzionali hanno reputato che la mera anzianità di servizio, «svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore». E, specie nei casi di anzianità modesta, si coglie «l’incongruenza di una misura uniforme e immutabile», che riduce «in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria».

L’ultima sentenza

Con l’ultima pronuncia, la Corte ha valutato – in base a princìpi costituzionali (articoli 3, c. 1, 4, 35, c. 1, e 117, c. 1) e sovranazionali (articolo 24 della Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge nazionale 30 del 1999) – la norma del jobs act sull’indennità in caso di licenziamento illegittimo in un’impresa con meno di 15 dipendenti.

La Consulta ha affermato che «un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità» rappresenta «un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto» e vanifica la possibilità di un’efficace deterrenza. Peraltro, il criterio del numero dei dipendenti – che discende dall’esigenza di non gravare di costi ingenti, per la corresponsione delle indennità di licenziamento, le piccole realtà organizzative – non rispecchia «l’effettiva forza economica del datore di lavoro».

Infatti, «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi», possono esservi «cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari», nonostante il limitato numero di occupati. In altre parole, il progresso nei sistemi tecnologici adottati nelle aziende ha fatto perdere al criterio numerico dei dipendenti una significativa valenza. Oggi tale criterio risulta inidoneo ad attuare «quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi».

La palla al legislatore

La Corte costituzionale, pur riconoscendo l’effettiva sussistenza del pregiudizio lamentato dal tribunale rimettente, ha tuttavia spiegato di non potervi porre rimedio, e per questo motivo ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni sollevate.

Mentre nelle due sentenze precedenti la Corte era riuscita a «rinvenire nel sistema criteri collaudati, idonei a indirizzare la valutazione del giudice e a supplire all’eliminazione di un parametro fisso e immutabile» – il parametro dell’anzianità di servizio – nel caso da ultimo esaminato la «vasta gamma di alternative» possibili per «la ridefinizione – in melius per il lavoratore illegittimamente licenziato – della stessa soglia massima dell’indennità», impone che sia il legislatore a compiere una scelta.

Quest’ultimo, infatti, dovrà definire «criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano».

Ad esempio, tra le altre soluzioni, si potrebbe eliminare «la predeterminazione di un tetto massimo», ricorrere ai «dati economico finanziari ricavabili dai bilanci» o rimuovere il «regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro».

La Corte aggiunge che l’eventuale inerzia del legislatore la indurrebbe, «ove nuovamente investita, a provvedere direttamente». In altre parole, in mancanza delle necessarie modifiche normative da parte del parlamento, sarà la Corte stessa a intervenire, con un ruolo di supplenza.

Ci si lamenta spesso che l’organo legislativo abbia perso centralità, ma è esso stesso a evitare di esercitare le proprie competenze (vedi il caso Cappato, ove la Consulta ha dovuto dettare la regolamentazione del fine vita, in attesa di una legge). Peraltro, finché il parlamento avrà la consapevolezza che, alla fine, la Corte si farà comunque carico della soluzione di temi controversi su cui esso non si pronuncia, sarà difficile che torni a svolgere pienamente il proprio ruolo.

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