Durante il periodo di emergenza pandemica, abbiamo più volte segnalato intrecci tra atti normativi e amministrativi, con conseguente confusione nel sistema delle fonti del diritto. Nella vicenda relativa alla risoluzione della concessione autostradale per la A24 e A25 (Roma-Pescara-L’Aquila), nei riguardi della concessionaria Strada dei parchi s.p.a, (Sdp), di cui ha trattato qualche giorno fa su queste pagine Giorgio Meletti, si è avuta un’ulteriore evoluzione di tale intreccio.

C’è un ministero che adotta un provvedimento amministrativo di risoluzione di una concessione; un legislatore che si sovrappone al ministero e “traduce” in decreto legge il provvedimento stesso; un giudice che, a seguito di ricorso, produce l’effetto di sospendere gli effetti non solo di tale provvedimento amministrativo, ma anche del decreto legge, su cui però può intervenire solo la Corte costituzionale. Questa è la sintesi giuridica della vicenda.

Le considerazioni seguenti non attengono al merito della stessa, cioè alla fondatezza o meno della risoluzione della concessione. Si vuole, invece, segnalare il metodo utilizzato e le distorsioni che esso ha prodotto. Anche perché in Italia, com’è noto, ogni strappo al diritto poi tende a divenire iter ordinario.

I fatti

Con decreto (n. 29/2022) della Direzione generale per le strade e le autostrade, l’alta sorveglianza sulle infrastrutture stradali e la vigilanza sui contratti concessori autostradali del ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili (Mims), del 14 giugno scorso, approvato il 7 luglio con decreto del Mims, di concerto con il ministro dell’Economia, la concessione per la A24 e A25 veniva risolta «per grave inadempimento del concessionario, Strada dei parchi s.p.a.».

La risoluzione faceva seguito alla lettera con cui, nel dicembre 2021, la direzione generale aveva notificato alla Sdp la contestazione di grave inadempimento alle obbligazioni della convenzione, assegnando a quest’ultima un termine per le controdeduzioni; all’iniziativa con cui la stessa Sdp, nel maggio scorso, aveva a propria volta notificato al governo la cessazione anticipata del contratto di gestione, in scadenza nel 2030, con richiesta di indennizzo; nonché al contenzioso tra Sdp e Anas per profili inerenti alla concessione.

La società non ha appreso della risoluzione attraverso una formale comunicazione del provvedimento, bensì dalla norma di un decreto legge (il numero 85 del 2022), che ha sostanzialmente “recepito” e «reso immediatamente e definitivamente efficace» il decreto ministeriale. Il decreto legge statuisce pure che la gestione della rete autostradale è attribuita pro tempore ad Anas. Come ha spiegato Meletti, l’efficacia immediata ha fatto sì che a mezzanotte del giorno di entrata in vigore del decreto legge, l’amministratore delegato dell’Anas, accompagnato da uomini della Digos, ha preso possesso della concessionaria.

Sdp ha presentato ricorso contro il decreto della direzione generale, il decreto del Mims e ogni atto connesso. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso in sede cautelare – richiamando, tra le altre cose, il «pericolo di default di Strada dei parchi», la prospettiva di licenziamento del «personale non richiesto da Anas» e il «pericolo di default finanziario dell’intero gruppo» – e ha sospeso l’efficacia degli atti impugnati, restituendo a Sdp la gestione dell’autostrada. E così Anas ha dovuto cedere il posto.

Le perplessità

Come detto, la vicenda presenta un singolare, nonché inquietante, intreccio di profili critici, che l’atto di ricorso presentato da Sdp consente di meglio rilevare.

Innanzitutto, c’è un problema di motivazioni. Come affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, l’obbligo di comunicazione dei motivi è fondato sulla necessità di garantire «un livello minimo di trasparenza nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici ai quali si applicano le norme del diritto dell’Unione e, di conseguenza, il rispetto del principio della parità di trattamento, che costituisce la base di tali norme».

La trasparenza va conseguentemente assicurata non solo nell’iter dell’aggiudicazione, ma pure per gli atti di revoca o di risoluzione della concessione. Ciò, quindi, anche quando revoca o risoluzione siano disposte con atto legislativo, il cui utilizzo non può essere motivo di deroga.

Nel caso in esame, il decreto legge fa cenno al «grave inadempimento del concessionario» e alle «motivazioni del decreto della direzione generale», e basta. Ma questo cenno non può sostituire le motivazioni stesse, che quindi sono sostanzialmente mancanti.

La società concessionaria, destinataria della norma di legge, infatti, non ha potuto conoscerle puntualmente, con particolare riguardo alla valutazione delle controdeduzioni da essa presentate dopo la contestazione dell’inadempimento da parte dell’ente pubblico. Ciò anche perché il provvedimento amministrativo che contiene le motivazioni non le è stato notificato. E anzi pare che le controdeduzioni della società fossero ancora in esame quando il decreto legge risolutivo della concessione è stato emanato.

In secondo luogo, il “recepimento” di un provvedimento amministrativo in una norma di legge – che, anziché essere generale e astratta, ha un destinatario preciso – pur essendo consentito in taluni casi, comporta distorsioni.

Infatti, in presenza di un mero provvedimento amministrativo, il privato può ricorrere al Tar affinché i giudici accertino i fatti, avvalendosi della partecipazione degli interessati, ed eventualmente conformino l’attività illegittima dell’amministrazione ai principi di efficienza, imparzialità e trasparenza (articolo 97 della Costituzione).

Ma se il provvedimento amministrativo è “sostituito” da una norma, il privato può solo chiedere il vaglio del decreto legge da parte della Consulta, per il tramite del giudice, restandogli precluso qualunque intervento diverso.

Inoltre, tale “recepimento” incide pure sugli eventuali procedimenti giudiziari già in atto riguardanti prosecuzione della concessione, rendendo sostanzialmente inutili le relative pronunce, con un’insana sovrapposizione tra potere legislativo e potere giurisdizionale. E ancora, la “sostituzione” del provvedimento amministrativo con una norma di legge priva anche soggetti terzi, estranei alla vicenda controversa, ma comunque colpiti dagli effetti della norma, delle garanzie di “partecipazione procedimentale” previste dalla legge per realizzare un bilanciamento fra l’interesse pubblico e quelli (pubblici e privati) concorrenti.

Infine, resta da chiedersi cosa succederebbe se il Tar annullasse il provvedimento amministrativo “incorporato” dalla norma di legge. Ritenere che la norma sopravviva comunque, significherebbe che il legislatore – quindi il potere pubblico – può fare ciò che vuole, con buona pace delle garanzie del “giusto procedimento” previste dalla legge nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. Durante l’emergenza sanitaria di distorsioni ne abbiamo viste molte. Non vorremmo che, una volta iniziato, si andasse pure oltre.

© Riproduzione riservata