La legge annuale sulla Concorrenza del 2021 sarà approvata, se tutto andrà liscio, nell’estate del 2022. Quasi un anno dopo il primo via libera nel Consiglio di ministri e dopo oltre mille emendamenti che l’hanno resa palese ostaggio dei partiti. Ma questa è solo la migliore delle previsioni, perché i fatti raccontano che il disegno di legge del governo è tuttora fermo al Senato. Incagliato tra riunioni di maggioranza e il rinvio dei voti in aula. Solo da martedì è previsto l’avvio dell’esame in commissione Industria. I punti irrisolti sono lontani da una soluzione. Anzi, passano le settimane e la situazione si ingarbuglia. Un esempio? Le concessioni per l’idroelettrico, tema diventato ancora più complicato con la guerra in Ucraina, tanto da far crescere l’ipotesi di estendere la Golden power.

Sul tavolo resta la revisione della gestione, nella direzione delle liberalizzazioni, dei servizi pubblici locali. Agli atti di palazzo Madama, negli ultimi giorni, resta la constatazione del viceministro allo Sviluppo, Gilberto Pichetto Fratin, sulle problematiche ancora sospese. Tutto questo, senza tenere conto dell’ostacolo principale: i bandi di gara per le concessioni demaniali marittime, ovvero gli stabilimenti balneari e le relative pertinenze. La Lega è pronta a fare asse con Fratelli d’Italia e Forza Italia, accantonando su questo punto le tensioni e la rivalità tra i leader Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Una sola legge in 13 anni

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La conclusione è che anche il governo Draghi è finito imbrigliato dagli interessi delle lobby e dalla sfida dei partiti. La sua pulsione di liberalizzatore ha incontrato i soliti problemi. Gli stessi di ogni tentativo di riforma sulla concorrenza. Del resto la legge, che ha carattere teoricamente annuale, è stata varata, dal 2009 a oggi, una sola volta: nel 2017 e dopo più di due anni dalla sua presentazione.

I tempi, nel caso dell’attuale esecutivo, sono una testimonianza degli affanni di percorso del disegno di legge governativo. Il primo ok del Consiglio dei ministri è arrivato a inizio novembre del 2021, con l’impegno di dare un segnale sulle liberalizzazioni sull’onda di quanto richiesto dall’Europa nell’ambito dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr. E avviando «un’operazione di trasparenza», per usare le parole del presidente del Consiglio.

Ma che qualcosa non andasse come sperato era chiaro fin da subito. Nel testo originario non è stata inserita la riforma sulla concessione degli stabilimenti balneari, su cui esistevano le maggiori divisioni politiche.

L’annoso problema dei balneari

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Una strategia attendista e pragmatica: dopo poche settimane il Consiglio di stato avrebbe dovuto pronunciarsi su un ricorso in merito alle proroghe previste fino al 2033. La sentenza della giustizia amministrativa è arrivata e ha imposto la messa a gara delle stesse concessione alla fine del prossimo anno, eliminando un problema per Draghi.

Solo a febbraio il governo ha affrontato la questione, raggiungendo un accordo in Cdm con la previsione delle gare per il 2024 e l’impegno dell’esecutivo a emanare dei decreti legislativi per semplificare la normativa.

L’intesa ha però incontrato gli immediati distinguo della Lega. Si è quindi deciso di intervenire in parlamento. «La Lega sta lavorando a una proposta di riforma strutturale che riguardi tutto il demanio marittimo», ha detto il sottosegretario alle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio, uno dei più tenaci sostenitori della proroga delle concessioni.

«Mettere mano soltanto alle concessioni balneari sarebbe una misura parziale e non risolverebbe le criticità», ha aggiunto. Insomma, la soluzione deve essere un compromesso complessivo, altrimenti i leghisti non ci stanno, portando con loro l’intero centrodestra. Su questo punto, infatti, non esistono sfumature tra Salvini e Meloni. Peraltro pure il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha frenato sulla liberalizzazione, parlando di «confronto» per «tutelare una filiera ricettiva e ricreativa importante per il nostro paese, ma anche di valorizzare beni ambientali».

Il calendario

Mentre la questione dei balneari stava viaggiando su un proprio binario, il ddl Concorrenza è stato incardinato al senato il 12 gennaio con la contestuale nomina dei relatori, Stefano Collina (Pd), e Paolo Ripamonti (Lega). È partito il ciclo delle audizioni, proseguito per quasi due mesi. Si è approdati dunque a un passaggio fondamentale: il termine per la presentazione degli emendamenti, generalmente preludio all’esame di un testo di legge.

La prima scadenza è stata fissata il 14 marzo, poi è stata posticipata al 15 e infine il 17 è stato indicato come giorno ultimo per depositare le proposte di modifica. Sono arrivati oltre mille emendamenti ai 32 articoli che compongono il ddl. Un indicatore inequivocabile delle divergenze della maggioranza.

Dopo mesi di attesa, da martedì i senatori potrebbero iniziare a votare. Il condizionale non è solo un esercizio di prudenza, ma l’esercizio di realismo di fronte alle tensioni mai sopite. Tuttavia, il governo ha ribadito la necessità di un’accelerazione, fissando un calendario di lavoro.

Secondo il cronoprogramma elaborato da palazzo Chigi, l’approvazione definitiva deve arrivare prima della pausa estiva. Quindi entro fine luglio. Il governo ha affidato al ministro dei Rapporti con il parlamento, Federico D’Incà, il compito di sbrogliare la matassa, in asse la sottosegretaria Caterina Bini e sotto la supervisione del sottosegretario Pichetto Fratin, in rappresentanza del Mise.

Il nuovo metodo

L’ultima mossa per far ripartire i lavori è stata quella di concordare un “metodo”. È stato deciso di suddividere i temi del ddl tra Camera e Senato: un ramo del parlamento si occuperà solo ed esclusivamente di determinate questioni, e l’altro non potrà intervenire. Una decisione bizzarra tenendo conto che il parlamento italiano è un bicameralismo perfetto, quindi entrambe le camere possono occuparsi dei provvedimenti allo stesso modo. 

«Può sembrare un rallentamento, ma è per fare in modo di trovare un’intesa più solida in ambito parlamentare», rispondono fonti di governo. Così dopo la prima votazione al Senato, prevista al massimo per metà maggio, ci sarà un dibattito vero alla Camera, dove il provvedimento approderà a inizio giugno. E solo in quella sede, secondo quanto si apprende, saranno affrontati i temi politicamente più divisivi. Insomma, i partiti hanno rinviato ancora una volta le questioni più dirimenti.

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