Questo articolo, che contiene notizie importanti, ha bisogno di una premessa. Mi occupo da molti anni del delitto Borsellino (1992) e dell’osceno depistaggio che l’ha preceduto, accompagnato e seguito; sono eventi di cui non si occupa più nessuno, ma sono riconoscente all’onorevole Claudio Fava, presidente della Commissione Antimafia della Regione Siciliana, per aver preso in molta considerazione le cose che ho scritto – ultime, nel mio libro Patria 2010-2020 – e per avermi fatto inaugurare, il 2 marzo scorso, una speciale sessione della Commissione, dedicata ai risvolti nazionali di quella terribile vicenda.  

Leggo sui giornali che, per altre vie, l’interesse per i misteri di quel periodo non accenna a scemare. Su Domani ho letto una ricostruzione di quei fatti, che lasciava intendere che si fosse vicini ad una verità travolgente, e cioè che Silvio Berlusconi fosse riconosciuto colpevole e mandante delle stragi del 1992 1993. Repubblica dà molto rilievo agli interrogatori da parte della procura di Firenze di un personaggio che entra ed esce da questa storia da quasi trent’anni, Salvatore Baiardo, già gelataio di Omegna, che sarebbe depositario della soluzione del caso. Purtroppo non è così facile prevedere che tutto finirà in poco e niente.

L’attacco alla democrazia

archivio storico nella foto: Graviano Giuseppe Busta n° 7441

Di che stiamo parlando? Della stagione più importante della storia recente italiana, il biennio 1992-1994, con le stragi, l’attacco alle democrazia e la nascita della seconda repubblica dell’homo novus Silvio Berlusconi. Quasi trent’anni dopo non c’è sentenza, né ricostruzione storica che spieghi l’eccezionalità di quegli eventi: polizia, carabinieri, servizi segreti, magistratura, politica e giornalismo hanno fatto a gara a chi ha depistato di più. Ricavandone, ognuno, qualche vantaggio.

Da tempo si va raccontando che un ruolo decisivo nelle stragi, più che i famosi Riina e Provenzano, l’abbia avuto la “famiglia Graviano”. Siamo nella Ur-Mafia siciliana, con agganci nei servizi segreti; i “Gravianos” sono (tuttora) proprietari di una larga fetta del patrimonio immobiliare di Palermo, negli anni Settanta investirono nell’edilizia a Milano. Nella guerra di mafia degli anni Ottanta, si schierarono con i Corleonesi e il capofamiglia Michele Graviano ci lasciò la pelle, ucciso da una persona che diventerà famosa, Totuccio Contorno, spalleggiato da suo cugino Antonino Grado (i Graviano sospettano da sempre che Contorno e Grado fossero protetti dal giudice Falcone).

Temendo di soccombere, il giovane capo famiglia, Giuseppe, decise di trasferire famiglia e business al nord, verso la Svizzera. Lui stesso si stabilì, indisturbato, a Omegna sul lago d’Orta, dal 1992 al gennaio 1994, quando venne arrestato a Milano, con il fratello Filippo e le rispettive fidanzate dopo una giornata di shopping. 

Il loro “gruppo di fuoco” venne catturato quasi subito e nel giro di poco tempo fu possibile ricostruire la matrice delle stragi italiane: i Gravianos hanno realizzato Capaci, via D’Amelio, Firenze, Milano, l’attentato a Maurizio Costanzo, il Velabro, l’omicidio di don Puglisi (oggi santo) e solo il loro arresto ha impedito il “colpo di grazia” alla democrazia italiana, con un attentato programmato allo Stadio Olimpico di Roma, ad un mese dalle elezioni.

Per quanto riguarda via D’Amelio, uno sgherro del clan, già all’epoca, raccontò di aver fornito a Giuseppe Graviano il telecomando per far scoppiare la Fiat 126 all’arrivo di Paolo Borsellino e della sua scorta. Si chiamava Biondo Giuseppe, venne trovato impiccato nel supercarcere di Pianosa, anno 1997.

Il ruolo dei Graviano nelle stragi erano noto a tutti, da subito. Lo conosceva il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, davvero un grande investigatore, purtroppo morto giovane; lo conosceva la DIA, lo conosceva il procuratore antimafia Vigna, lo conosceva il suo vice Piero Grasso, lo conosceva la stessa polizia; lo conosceva il grande investigatore Arnaldo La Barbera, il plenipotenziario della indagini sulle stragi che, per coprire i Graviano, si inventò un falso pentito e mandò in galera (con la firma di una trentina di magistrati e il plauso di tutti) una dozzina di sgarrupati innocenti, per qualcosa come diciotto anni.

Giuseppe e Filippo Graviano sono al 41 bis da 26 anni, hanno nove ergastoli. Vorrebbero uscire, almeno in permesso. Filippo, già da tempo si è dichiarato “dissociato”, Giuseppe Graviano tratta (nulla è stato più affollato della sua cella al 41 bis, da dove peraltro è diventato padre e ha difeso il patrimonio di famiglia).

Difficile però che possa incastrare Berlusconi: non ha prove, non ha carte, non ha testimoni; il business tra la sua famiglia e la Fininvest è cosa di mezzo secolo fa. E Berlusconi ha un ottimo ufficio legale, lo stesso che quando la procura di Palermo nominò un perito di Bankitalia per scoprire che cosa ci fosse dietro le misteriose holding del presidente (e parecchio scoprì), lo costrinse – non si sa come – a una umiliante ritrattazione davanti ad un notaio.

Cosa è successo a Omegna

FOTO DI REPERTORIO Foto LaPresse 23-05-2012 Vent'anni dalla strage di Capaci

C’è piuttosto un’altra storia, su cui ho ricevuto attenzione dalla commissione Antimafia e che mi auguro vivamente possa interessare oggi la procura di Firenze. La questione è apparentemente semplice: Giuseppe Graviano ha organizzato lo stragismo in Italia, dal piccolo paese di Omegna, in assoluta tranquillità. Lo dice lui stesso: «Ero protetto». Da chi? Dai carabinieri. E perché? Perché aveva fatto loro un favore.

Qualcuno di voi si ricorda di tale Balduccio Di Maggio? Era l’autista di Riina, il Capo dei Capi, venne arrestato a Borgomanero, provincia di Novara (dieci chilometri da Omegna) e la sua cattura portò ad una breaking news nel mondo intero: la cattura di Totò Riina, il 15 gennaio 1993. Non solo, ma Balduccio, dietro pagamento di 500 milioni (versati dal Viminale, come anticipo per future collaborazioni), rivelò il bacio tra Riina e Giulio Andreotti. Ma il supertestimone si rivelò un flop, oltreché mascalzone; fu messo in galera, ma poi scomparve. Ancora oggi nessuno sa dove sia Balduccio, né che faccia abbia. Al tempo, se qualcuno avesse pubblicato una sua fotografia, sarebbe stato arrestato.

Il 21 gennaio 2020, nel corso di una lunghissima deposizione al tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Graviano, nel disinteresse generale, ha raccontato che fu proprio lui a far salire al nord Balduccio, a sistemarlo a Borgomanero e a consegnarlo al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che peraltro si premurò di farlo sapere in giro, a chi di dovere. Per esempio, il generale Delfino andò ad annunciare la grande notizia già all’indomani di via D’Amelio. «Le porto Riina come regalo di Natale», disse al ministro della Giustizia Claudio Martelli. Insomma, era una cosa quasi pubblica. Questa è la natura della «favolosa protezione» (parole sue) di cui Graviano ha goduto nella sua latitanza. Ha fatto un favore allo Stato, e lo stato gli he permesso di fare i suoi affari. Ovvero, ha coperto le stragi.

Il gelataio che sa

Nelle cronache di questi giorni compare il nome di Salvatore Baiardo, di fede politica del Psdi, gestore di una gelateria, “factotum” di Graviano ad Omegna: era lui che lo accompagnava da Berlusconi con la Mercedes 190. Baiardo venne arrestato subito dopo i Graviano, riempì faldoni, si fece 5 anni di galera, e però, molto stranamente, venne liberato e accusato (per richiesta esplicita del procuratore antimafia Vigna) di solo “favoreggiamento”. Graviano gli chiese, nel 2011, di dargli un alibi per via D’Amelio, Baiardo ci provò (rozzamente) e il tentativo naufragò. Da allora sbarca il lunario, gira assegni per far benzina, una comparsata televisiva.

Ma c’è una cosa che mi permetto di consigliare a chi ancora adesso, meritevolmente, indaga. Nella deposizione del 21 gennaio 2020 a Reggio Calabria, Giuseppe Graviano – non richiesto - racconta di come apprese dell’arresto di Di Maggio. Era inverno, ma «sicuramente prima del veglione» (lo dice tre volte). Giocavamo a poker a casa di Baiardo, si fece mattina. Baiardo andò a prendere i cornetti e salì su con la notizia: «La sapete la novità? Hanno arrestato Balduccio, lo tengono in una villa qui ad Omegna».

Oops! L’arresto di Di Maggio è formalizzato l’8 gennaio, l’arresto di Riina il 15. Se siamo prima del Veglione, Graviano avrebbe ancora il tempo di avvisare Riina, di cui è caro amico, ma non lo fa. Infame e sbirro, per il suo ambiente; coraggioso servitore dello Stato, visto dall’altra parte. (Ho controllato: il ricordo di Graviano era preciso; casa Baiardo era in contrada Crusinallo, sotto il monte Mottarone; la panetteria esiste ancora, si chiama “Dolci Tentazioni”).

Ascoltavo via Radio Radicale. Ci fu, allora, una sola domanda: «Scusi, Graviano, ma chi l’aveva detto a Baiardo?». «Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto». La voce era quella di Antonio Ingroia, il famoso ex pm, oggi avvocato difensore dei due carabinieri uccisi a Reggio.

Ecco; io chiederei a Baiardo: conferma questa circostanza? Ha qualcosa da aggiungere? Già, ma se lui confermasse, sarebbe un bel guaio. Non tanto per Berlusconi, quanto per lo Stato italiano.

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