Ci sono momenti in cui la misura della democrazia non si riconosce nei discorsi ufficiali, ma nei gesti più piccoli. Davanti all’Auditorium della Tecnica a Roma, dove il governo ha convocato la Conferenza nazionale sulle droghe, insieme ad alcune attiviste dell’associazione Meglio Legale che presiedo e alla presenza dell’onorevole Riccardo Magi abbiamo tentato un piccolo atto di libertà: un flash mob ironico, pacifico, persino giocoso.

Avevamo un accredito per seguire i lavori, ma una volta all’ingresso ci è stato negato l’accesso. Senza alcuna spiegazione. Sono anche vicesegretaria del partito +Europa e per questo essere lasciata alla porta in quel modo mi è sembrato ancora più sfacciato e incomprensibile. Così, insieme alle colleghe che erano già fuori abbiamo deciso di fare un piccolo flash mob. Giusto il tempo di una foto. Indossando costumi gonfiabili da pollo, da unicorno, da altri animali. Una scelta volutamente paradossale: per dire che la “guerra alla droga” non è una cosa seria, che la retorica proibizionista ha ormai assunto tratti farseschi. Ma la reazione dello Stato è stata tutto fuorché ironica: sessanta agenti ci hanno circondate, strattonate, immobilizzate.
Ecco l’immagine più nitida del nostro tempo: un potere che teme persino il dissenso gentile, che scambia la satira per minaccia e il pensiero critico per disordine pubblico.

Il divieto di manifestare, l’accerchiamento fisico, il rifiuto dell’accredito a organizzazioni riconosciute dall’Agenzia Onu sulle droghe — tutto questo non riguarda soltanto un episodio di eccesso di zelo. È la spia di una tendenza più profonda: la restrizione degli spazi democratici in nome di un ordine che non tollera deviazioni.

Il proibizionismo, del resto, è da sempre una forma di governo morale: pretende di regolare i comportamenti più intimi e di decidere, in nome della virtù, ciò che ciascuno può fare del proprio corpo. In questo senso, la “guerra alla droga” non è mai stata solo una politica pubblica — è una pedagogia autoritaria, che trasforma la libertà individuale in colpa e la scelta personale in reato.
Oggi questo governo — il più proibizionista degli ultimi trent’anni — ne ripropone la versione più ottusa. Si vieta la canapa industriale come se fosse eroina, si toglie la patente a chi non è sotto effetto di sostanze, si riempiono le carceri di minorenni per piccoli reati di consumo. E si continua a concentrare la repressione su un’unica sostanza, la cannabis, la meno dannosa, la più studiata, la più controllabile.

Intanto, i dati ufficiali dello stesso Dipartimento Antidroga segnalano un aumento dei decessi legati al crack e alla cocaina. Eppure nessuna parola, nessun piano, nessuna attenzione. La realtà viene ignorata quando contraddice il dogma.
Ma la questione non è solo sanitaria o sociale. È democratica. Perché una democrazia che teme una manifestazione pacifica, che reprime chi chiede ascolto, che rifiuta il confronto con la scienza, non è una democrazia sicura di sé. È una democrazia fragile, che confonde la forza con l’autorità, l’ordine con la giustizia. Davanti a quell’Auditorium blindato, ho avuto la sensazione che lo stato non avesse paura della droga — ma dei cittadini che osano discuterne. E allora sì, la loro guerra alla droga non è una cosa seria. Ma la nostra libertà, quella sì, lo è eccome.

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