Le elezioni europee sono sempre più vicine: il consiglio dei ministri ha fissato la data per l’8 e il 9 di giugno, e l’ansia inizia a salire soprattutto a destra.

Fratelli d’Italia veleggia verso il 30 per cento e, secondo i più vicini alla premier, Giorgia Meloni avrebbe ormai superato ogni indugio e dovrebbe annunciare la sua candidatura con l’obiettivo di puntare al plebiscito, provando a superare anche il 34 per cento della Lega nel 2019 e dare l’ennesima prova di forza che chiuda ogni concorrenza a destra.

La mossa, non ancora annunciata ma nell’aria, non desta eccessive preoccupazioni in Forza Italia: impegnato nel suo congresso a marzo, il partito di Silvio Berlusconi sa che il suo elettorato naturale è quello liberale e moderato e, nonostante le fosche previsioni del 2022, lo zoccolo duro continua a reggere. L’obiettivo di FI, anche se il segretario Antonio Tajani ha parlato di «20 per cento in due o tre anni», è ad oggi quello di mantenere saldo il suo 8 per cento, forte anche della sua collocazione nel Partito popolare europeo.

Diversa invece la situazione della Lega, per cui il deludente 8,8 per cento alle scorse politiche è il segnale del baratro e non certo quello della sopravvivenza. Soprattutto ripensando ai fasti del 2019. Per questo, dalle parti di via Bellerio si affinano strategie: Salvini sa che, per guadagnare ancora tempo, la soglia psicologica è quella della doppia cifra e nel caso della Lega sì la candidatura di Meloni impensierisce, soprattutto al nord. La scelta della leader di Fratelli d’Italia di puntare ancora su se stessa, «per confrontarmi con il consenso», come ha spiegato recentemente, è un enorme rischio per Salvini: una sua candidatura in tutte le circoscrizioni, infatti, potrebbe comportare il drenaggio dei voti proprio della Lega nelle sue regioni storiche, dal Veneto alla Lombardia dove già FdI è arrivato a doppiarla alle politiche e alle regionali.

Non solo: un exploit di Meloni in Veneto sarebbe una quasi ipoteca di FdI in vista delle regionali in Veneto nel 2025, considerato improbabile il tris della candidatura di Luca Zaia (il disegno di legge che modifica le regole per le candidature dei governatori non è una priorità della maggioranza).

La posizione del segretario leghista è complicata: nell’ultimo consiglio federale, ha chiesto un impegno alle europee da parte dei suoi presidenti di regione – da Zaia a Massimiliano Fedriga, fino a Attilio Fontana – proprio per scongiurare l’assalto. La risposta, però, è stata sostanzialmente negativa. Nessuno di loro è interessato alla candidatura in Europa, soprattutto perchè significherebbe mettere in gioco il rapporto di fiducia con gli elettori nelle rispettive regioni, candidandosi con la certezza di rifiutare poi l’incarico. L’unico ancora in bilico è Zaia, visto il rischio di trovarsi senza incarico nel 2025, ma il Doge veneto ha fatto capire ai suoi di non essere disposto a volare a Bruxelles per fare l’europarlamentare semplice e la Lega non è in grado di promettergli uno scranno più prestigioso e men che meno da commissario europeo.

In questo scenario, l’unica carta rimasta da giocare a Salvini è quella di attaccare Meloni, testando la teoria per la quale un Fratelli d’Italia “partito della nazione” sta lasciando per strada una buona percentuale di delusi, soprattutto tra la vecchia guardia missina e i nostalgici di destra.

Per conquistarli, dunque, il vicepremier sta puntando su messaggi chiari quanto estremi, collocando la Lega su due piani: quella di partito di governo che ha fatto approvare l’autonomia, appena passata in aula al Senato e ora passata alla Camera, ma anche di partito di lotta che sostiene le molte minoranze rumorose: dai fan del generale Roberto Vannacci agli scettici rispetto al sostegno all’Ucraina, fino agli antiabortisti.

Il generale Vannacci

La candidatura di Vannacci è uno dei sogni proibiti di Salvini. Ha fatto capire in tutti i modi che sarebbe più che felice di ospitarlo nelle liste della Lega, anche perchè un sondaggio commissionato parlerebbe di una sua capacità di spostare la forbice di voti di un 3 per cento. Il numero è stato testato nel caso di una candidatura autonoma di Vannacci, ma la speranza è che un effetto similare possa arrivare anche in caso di candidatura nella Lega. Il generale, conscio del corteggiamento, non ha sciolto la riserva e anzi si fa desiderare. Intanto, il 12 marzo uscirà per Piemme il suo nuovo libro Il coraggio vince, un’autobiografia che sarà un’ottima occasione per presentazioni in giro per l’Italia (quelle per Il mondo al contrario stanno proseguendo e registrano sale piene) e ospitate televisive, che sono il vero toccasana per ogni candidato alle europee. Eppure, l’idea limite di offrire a Vannacci una candidatura in tutti i collegi – oltre a non essere stata accettata dal diretto interessato – ha fatto storcere il naso anche dentro la Lega. Per molti candidati uscenti ma anche per gli interessati che nel partito hanno fatto gavetta sarebbe uno smacco sentirsi così superati a destra. Inoltre, è la critica soprattutto al nord, la Lega ha sempre fatto del radicamento territoriale un punto di forza. Vannacci, pur con la sua aura mediatica, sarebbe un battitore libero che scavalca ogni gerarchia.

Gli antiabortisti

Altro pallino di Salvini è quello di strizzare l’occhio ai gruppi Pro Vita. Difficile sposare posizioni così estreme dal governo con azioni e proposte concrete, soprattutto perchè il tema è sorvegliato da Meloni che sul punto è spesso stata stuzzicata dalla stampa. Tuttavia, ci sono molti modi di dimostrare la propria vicinanza al mondo ultraconservatore degli antiabortisti. Uno di questi è stato quello di ospitare alla Camera il convegno del Centro Studi Politici e Strategici "Machiavelli" su aborto ed eutanasia, in cui uno dei relatori – Marco Malaguti – ha spiegato che con dure reazioni in particolare dal Pd alle affermazioni dei relatori. Una di loro, la ricercatrice di filosofia a Roma Tre Maria Alessandra Varone, ha detto che «l'aborto non è un diritto legalmente accettabile», anche «nei casi più tragici, come quelli di stupro, non è mai giusto».

Formalmente la Lega non figurava nel cartellone, ma per organizzare un convegno alla Camera serve la richiesta di un parlamentare: in questo caso il deputato leghista Simone Billi, che però non era presente. Dopo le critiche Billi ha tentato di minimizzare il suo ruolo nella vicenda dicendo di non condividere le posizioni proposte, tuttavia lo zampino leghista nella prenotazione della sala è oggettivo e, a ben guardare, non l’unico. Come raccontato da Repubblica, infatti, il prossimo 3 febbraio si svolgerà a Milano il convegno “Homo occidentalis”, sul «tipo umano contemporaneo tra minacce transumaniste e propaganda Lgbt. Tra gli ospiti l’ex senatore leghista e pro Vita Simone Pillon, l’ex presidente Rai in quota Lega Marcello Foa e il banchiere cattolico Ettore Gotti Tedeschi, ma anche il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo, che però ha dato forfait, spiegando di non aver ancora confermato la sua presenza. 

L’odg sull’Ucraina

Più concreto rispetto a queste mosse di accreditamento presso alcuni ambienti culturali conservatori, invece, è stata la presentazione dell’ordine del giorno sulla guerra in Ucraina. Romeo, capogruppo di osservanza salviniana, ha presentato un odg al Senato al decreto del ministro Guido Crosetto per prorogare l’invio di armi a Kiev. Nel testo, è stata messa nero su bianco la volontà di un netto cambio di strategia: «avviare un percorso diplomatico per «una rapida soluzione del conflitto», anche perchè «anche l'opinione pubblica italiana non supporta più pienamente gli aiuti militari che il nostro Paese continua a inviare in sostegno all'esercito ucraino e auspica una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto». Sono bastate poche ore perchè tutto venisse cancellato: l’odg è stato riformulato e di fatto sterilizzato dalle posizioni scettiche nei confronti del rinnovo del sostegno all’Ucraina. Tuttavia, la mossa ha stizzito non poco Meloni, impegnata nelle prossime settimane in un viaggio a Kiev e che da mesi sta tessendo la sua tela di relazioni internazionali per accreditarsi come partner filo-atlantico. 

Eppure – riscritto o meno – anche l’odg è un tassello della strategia salviniana: accarezzare le posizioni più estreme che però sono fortemente radicate nell’elettorato di destra. Per farlo bastano piccoli segnali: non servono strappi netti con la linea di Meloni, basta lanciare il messaggio. Se poi basterà alla Lega a rosicchiare quel 2 per cento che manca, secondo i sondaggi, al 10 per cento, sarà tutto da vedere. Come sarà da vedere se Meloni si muoverà per arginare la possibile erosione a destra.

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