La premier Giorgia Meloni ha dato segno di crederci: il premierato verrà approvato, almeno in prima lettura al Senato, entro le europee. Utile da spendere come promessa rispettata in campagna elettorale, anche a costo di metterlo in cima al faldone di misure avviate o anticipate e poi lasciate a languire in qualche cassetto del parlamento o di palazzo Chigi, come le riforme della giustizia e la separazione delle carriere dei magistrati.

Scegliere il premierato come parola d’ordine, però, costringe a pronunciarne altre due, che ne sono diretta, e non proprio gradita, conseguenza: autonomia e legge elettorale. La prima si è incaricato di ricordarla alla premier il capogruppo in Senato della Lega, Massimiliano Romeo, che in un’intervista alla Verità ha ribadito – come se ce ne fosse bisogno – che premierato e autonomia regionale sono «contrappesi», un modo elegante per dire che senza l’una difficilmente si approverà l’altra.

Il compito di conciliarle spetterà al fedelissimo di Meloni ed esperto di riforme Ignazio La Russa: entrambe partono da palazzo Madama (l’autonomia arenata in commissione Affari costituzionali, il premierato pronto ad arrivarci a breve) e al presidente toccherà esercitare la sua moral suasion di pontiere non solo verso le opposizioni, ma anche nei confronti degli alleati di governo.

La seconda parola d’ordine – la legge elettorale – è invece il vero tranello che si nasconde dietro la riforma costituzionale del premierato. A onor del vero, i costituzionalisti come Stefano Ceccanti avevano già messo in guardia sui rischi durante la mega-riunione di professori organizzata al Cnel dal duo Elisabetta Casellati-Renato Brunetta. Nei giorni scorsi, sul punto si è intestardito anche l’ex presidente del Senato e attuale senatore di FdI Marcello Pera, non certo una voce ostile al governo.

«Non mettete la legge elettorale in Costituzione», ha ripetuto dalle pagine di tre diversi giornali. Inascoltato, almeno nella prima versione del testo che approderà a palazzo Madama. Poi, come ha ripetuto la conciliante ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati, il testo «è modificabile», basta che non lo si snaturi. Infatti Casellati ha già sganciato la bomba. «Alla legge elettorale sto già lavorando», ha detto in conferenza stampa, certificandone la centralità nel suo progetto di riforma.

Il rischio incostituzionalità

«È una riforma light, i cittadini vogliono scegliere loro chi li guiderà», dice un senatore di FdI, tagliando corto e senza entrare nel merito della questione. L’assunto è lineare, il problema è come raggiungere l’obiettivo e la previsione nel testo di Casellati rischia di essere il vero nodo che impantanerà la riforma.

Il nuovo articolo della Costituzione prevede un sistema elettorale maggioritario con un premio del 55 per cento assegnato su base nazionale alle liste collegate al candidato premier eletto. Peccato che l’attuale formulazione codifichi – cristallizzandolo quindi anche per il futuro, con una forzatura rilevata anche da Pera – il premio assegnato, ma non chiarisca quale sia la soglia minima per arrivarci, requisito imposto da due sentenze della Consulta, come hanno fatto notare costituzionalisti come Ceccanti, Francesco Clementi e il sempre più inascoltato Pera.

Il premio «potrà cambiare», ha detto per tutti il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, purché venga fatto salvo il principio della governabilità. Risposta politica quanto vaga, visto che le soglie sono il cuore di ogni legge elettorale e stanno già facendo discutere soprattutto dentro la maggioranza.

Il rischio vero, però, è che si generi un enorme nodo conflittuale tra organi costituzionali. Le due sentenze costituzionali del 2015 e 2017, infatti, impongono proprio che venga fissata la soglia minima per raggiungere il premio in legge elettorale, a pena di incostituzionalità, almeno del 40 per cento. Per la legge elettorale dei comuni, per esempio, è del 50 per cento.

Con l’attuale formulazione da cristallizzare nella Carta, invece, sembra sottinteso che il premio scatti per la coalizione più votata e quindi astrattamente anche un partito che al 40 per cento non è arrivato. Senza contare, poi, che la futura legge elettorale potrebbe prevedere anche un sistema a doppio turno, che aprirebbe a ulteriori problemi di calcolo.

Il risultato è che l’effettività del premierato dipende molto più da una nuova legge elettorale ancora da scrivere che dalla riforma costituzionale. Una nuova legge elettorale che verrà approvata con legge ordinaria, dunque con un decorso parlamentare molto più rapido della riforma costituzionale che la impone.

Con il possibile effetto che la legge elettorale presupposta dal premierato venga approvata, perché richiede maggioranza semplice e non sarà oggetto di referendum, mentre a non arrivare a meta sia la riforma costituzionale che la presuppone. Scherzi dei meccanismi parlamentari.

Aspetto secondario dal punto di vista tecnico ma non trascurabile da quello politico – è stato già notato sulla Nuova Padania dal leghista Paolo Franco – è il fatto che la riforma costituzionale, che dovrebbe andare a braccetto con quella dell’autonomia, si dimentichi che l’articolo 57 della Costituzione prevede che il Senato sia eletto su base regionale. Il testo di Casellati, invece, prevede che il premio di maggioranza venga assegnato su base nazionale.

Insomma, o salta il principio caro ai leghisti della prima ora di un Senato “camera delle regioni”, oppure si riproporrà l’effetto di camere con maggioranze diversamente solide. La sintesi è che il premierato voluto da Meloni porta con sé altre due riforme obbligate e la più rischiosa è quella elettorale ancora non scritta. Con un pessimo record: tutte le maggioranze che hanno cambiato il sistema di voto non sono state premiate alle urne.

© Riproduzione riservata