L’approfondimento Rai per tutti è sinonimo di Raitre. Con il suo sacrificio, voluta dai nuovi vertici meloniani, viale Mazzini ha deciso di mettere una pietra tombale anche sull’autorevolezza di alcuni programmi che hanno fatto la storia del servizio pubblico.

Ma oltre a compromettere la sua autorevolezza, la Rai si è persa anche quello share che garantivano i nomi forti – di conduttori e trasmissioni – del passato. E lo share, lo si vede dalle preoccupazioni di questi mesi per la raccolta dell’anno prossimo, assicurava pubblicità che oggi è a rischio. Il risultato di una combinazione di nuove abitudini degli spettatori e fine di un’identità di rete che caratterizzava soprattutto Raitre dopo che le direzioni verticali sono state sostituite da quelle per generi sono palinsesti deboli. Da un lato vengono sempre più a mancare i capisaldi che garantivano il primato dell’approfondimento targato Rai, dall’altro mancano le intuizioni per sostituirli con prodotti che convincano altrettanto. Sempre più spesso le nuove creature inventate dai vertici di viale Mazzini non fanno strada e si arenano a poche puntate del debutto. L’ultima è Avanti popolo di Nunzia De Girolamo, che arranca e dopo quattro puntate non riesce ad andare oltre il 4,3 per cento.

Gli ultimi dieci anni sono stati la stagione dei grandi acquisti da parte de La7 di Urbano Cairo. Un po’ alla volta ha sfilato a viale Mazzini volti di spessore e format di successo. Il clima creato dallo sbarco in Rai della destra ha fatto il resto: il risultato è un’azienda ormai povera di firme autorevoli, in cui sopravvivono – chissà per quanto – pochi punti di riferimento. La7 ha progressivamente assorbito Giovanni Floris e Diego Bianchi, per non parlare degli ultimi acquisti, Corrado Augias e Massimo Gramellini, o Massimo Giletti, che in dote ha portato una prima serata che rendeva anche l’8 per cento di share. Per avere il quadro completo di quel che il servizio pubblico ha perso, bisogna riprendere in mano i palinsesti dell’epoca.

Ricordi di Raitre

La corazzata di Raitre era già consolidata, anche se era venuto meno lo spirito militante dell’epoca dell’antiberlusconismo: c’erano ovviamente Report, Presadiretta e Mi manda Raitre, ma soprattutto Ballarò. Anche nell’ultima stagione condotta dal giornalista romano comunque era stabilmente oltre il 12. L’addio di Floris, migrato nel 2014 a La7 a ridosso della nuova stagione, ha segnato l’inizio della fine del dominio sull’informazione di viale Mazzini. La soluzione trovata della Rai per portare avanti il programma era stato quello di affidare la conduzione a Massimo Giannini. Il vicedirettore di Repubblica, volto riconoscibile e autorevole per il pubblico di Raitre, era sembrato un ottimo candidato per l’inedito duello del martedì. Dopo una buona partenza si era però progressivamente assestato più o meno alla pari con Floris con gli spettatori erano in parte migrati su La7, dove per la prima volta potevano trovare un programma speculare a quello di Raitre.

Il Ballarò di Giannini è arrivato all’estate del 2015, poi, sotto la direzione di Daria Bignardi, ne è stata decisa la chiusura, nonostante la performance di Giannini abbia retto lo scontro con il primo conduttore del programma. Il resto è storia: la Rai mollò la controprogrammazione del martedì sera abbandonando il marchio di Ballarò e affidando la serata nel 2016 a Gianluca Semprini, che con il suo Politics, poi chiuso, non è stato all’altezza. Poi, un anno di niente. Riacciuffare gli ascolti nel 2017 con Cartabianca, che da striscia quotidiana era stato trasformato in prima serata, è stato difficile, ma negli anni Bianca Berlinguer si è rivelata una concorrente da tenere in considerazione per Floris. Oggi, anche lei ha lasciato il servizio pubblico: il 13 per cento con cui Floris aveva salutato la Rai questo autunno se lo spartiscono le televisioni commerciali. Da un lato Dimartedì, che la settimana scorsa ha fatto il 6,8 per cento di share, dall’altra È sempre Cartabianca, 4,8 per cento. Il martedì sera della Rai, in mano a De Girolamo, era fermo all’1,8 per cento.

Per non parlare di Che tempo che fa, della cui resa, in confronto ai costi, si è discusso molto. Il passaggio a Nove ha pagato, gli ascolti tengono e Warner si candida a essere con questo nuovo acquisto un nuovo giocatore di rilievo nel telemercato, un po’ come Cairo lo è stato nel decennio passato. Lui e il suo Andrea Salerno alla Rai sfilarono quasi subito anche la banda di Gazebo, capitanata da Bianchi e cresciuta su Raitre. La sua seconda serata riusciva a viaggiare intorno al 7 per cento di share, oggi il venerdì su La7 ne fa circa altrettanto. Tango di Luisella Costamagna si ferma al 2 per cento; un paragone ingeneroso.

Eppure, la seconda serata d’approfondimento in passato aveva dato a viale Mazzini anche altre gioie non indifferenti, come con Virus, che su Raidue dal 2013 al 2015 si muoveva saldamente intorno al 4,5 per cento, duellando degnamente con Luca Telese che a Matrix. A prendo così la strada a esperimenti futuri di buon successo, come Nemo, che dal 2016 al 2018 faceva tra il 4 e il 5 per cento di share. Il suo successore, Popolo sovrano, non è mai andato oltre il 3 per cento. Per non parlare del daytime.

L’Agorà di oggi si sogna lo share dei primi anni 2010, quando l’approfondimento del mattino di Raitre non scendeva quasi mai sotto il 9 per cento. Lo stesso vale infatti per In mezz’ora, che rispetto alla gestione Annunziata perde un paio di punti percentuali di share. Un fallimento strategico e di prodotto, insomma. Priva dei suoi nomi di punta, la nuova Rai sovranista ha dimostrato che non sempre è vero che nessuno è indispensabile e che l’alternativa tanto poi si trova.

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