Il Pd è un partito in costante crisi di nervi. L’esempio più eclatante lo fornì l’ex segretario Nicola Zingaretti quando, nel corso della crisi del governo Conte 2, si dimise improvvisamente dichiarando di vergognarsi per il comportamento dei suoi compagni di partito. Solo l’intervento salvifico di Enrico Letta impedì una implosione.

Ma poi nemmeno lui resse l’urto di un’altra crisi di nervi, divampata all’indomani delle ultime elezioni politiche. Benché il partito non avesse perso rispetto alle precedenti consultazioni venne sommerso da una ondata di giudizi tranchant da parte dei media, giudizi che si riverberarono tutti all’interno.

Una natura irrisolta

L’assorbimento automatico del mantra della sconfitta rende il Pd un organismo privo di diaframmi, per non dire corazze, a fronte delle avversità. E così anche le modeste e parzialissime elezioni locali di questo mese assurgono a catastrofi epocali.

La ragione di tutto ciò viene da lontano, dalla natura ibrida e irrisolta del partito per via delle sue continue metamorfosi. Infatti, non c’è più nulla dell’ispirazione originaria, perché sono scomparsi politicamente i fondatori, e con essi la cultura politica che esprimevano: quella della serietà e della governabilità, dell’affidabilità e della competenza, permeata di riferimenti socialdemocratici e cattolico-democratici.

Il Pd ha navigato su quell’onda finché la delusione per il mancato successo pieno di Pierluigi Bersani ha buttato a mare quella cultura politica e quegli attori, rottamati dalla scoppiettante e trascinante leadership del giovane Renzi.

Una scelta chiara

L’irruzione del fiorentino, che tanti affascinò, ha cambiato fisionomia al Pd, e il partito ne risente ancora. I connotati originari sono stati diluiti in un post-blairismo all’acqua cotta, e dal bacino elettorale sono fuggiti i ceti popolari tanto che, dopo l’unico successo delle europee del 2014 (attenti quindi a usare questo metro per predire destini) il Pd ha intrapreso una discesa agli inferi, culminata con il peggior risultato della sua storia alle elezioni del 2018.

Da allora il partito non si è più ripreso. Le speranze riposte nel cacciavite paziente di Enrico Letta sono sfumate il 25 settembre. Alla nuova segretaria spetta un’opera di ricostruzione. Come ha riconosciuto con rara onestà intellettuale Carlo Cottarelli nel dimettersi anche da senatore, Elly Schlein ha finalmente operato una scelta chiara, in direzione di una moderna socialdemocrazia.

Deve però ancora mettere a punto gli strumenti, vale a dire riformare radicalmente un partito costruito su schemi superati. E per questo c’è bisogno delle migliori energie, non dei fedeli.

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