La firma dell’accordo da 8 miliardi di dollari fra l’Eni e la National oil corporation (Noc) libica è un tassello importante dell’imminente missione di Giorgia Meloni in Libia.

La presidente del Consiglio sarà infatti accompagnata dall’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, oltre che dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e da quello dell’Interno, Matteo Piantedosi.

Ma quella energetica non è l’unica partita aperta, e anzi è intrecciata con una questione di fondo dalla quale in una certa misura dipendono tutti i vari dossier: la posizione del governo italiano sul percorso (al momento fermo) verso le elezioni e un piano per la stabilizzazione del paese.

Per capire in quale direzione va il governo Meloni è importante vedere chi incontrerà durante la visita, e soprattutto, chi non incontrerà.

A Tripoli vedrà il primo ministro ad interim del governo di unità nazionale, Abdul Hamid Dbeibah, il cui mandato è scaduto dopo il tentativo fallito di indire nuove elezioni e dunque è una specie di reggente, incalzato dai rivali e giudicato illegittimo dal governo parallelo guidato da Fathi Bashagha, che infatti ha subito protestato per la visita di Meloni.

L’incontro con Dbeibah è l’unico ovvio e inevitabile: per quanto debole e delegittimato, il governo di unità nazionale è l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale.

C’è poi il generale Khalifa Haftar, il leader de facto della parte orientale del paese, sostenuto anche dalla Russia, che in passato ha già “costretto” presidenti del Consiglio e leader internazionali (ma non Draghi) a volare a Bengasi per riconoscere il suo ruolo nella regione.

Questa volta il passaggio a casa di Haftar si è complicato, facendo anche cambiare il significato politico che Meloni voleva dare alla visita.

Bengasi

Palazzo Chigi per il momento non comunica i dettagli del programma di Meloni, ma Daniele Raineri su Repubblica ha scritto che la premier non andrà a Bengasi e non incontrerà Haftar, che pare sia all’estero per ricevere cure mediche.

Le voci sul suo stato di salute molto precario circolano da tempo, e la settimana scorsa il giornale russo Nezavisimaya Gazeta ha scritto che il generale sta pensando di trasferire il suoi poteri al figlio Saddam.

Non incontrare Haftar non è dunque una decisione politica: secondo fonti locali sentite da Domani, fino a pochi giorni fa la visita era in agenda, ma è saltata quando è stato chiaro che il generale non sarebbe potuto rientrare per l’occasione.

Il suo entourage ha provato a fare pressione per rimandare la missione italiana, ma alla fine ha accettato la circostanza senza rimostranze.

A questo verosimilmente corrispondono le rassicurazioni di Roma sul fatto che Haftar è tenuto in alta considerazione dal governo: Meloni avrebbe voluto segnalare con questa visita lo schieramento dell’Italia a favore della strategia di unificazione attraverso la mediazione fra Dbeibah e Haftar, dopo anni di incertezza e inazione.

Due cordate

Nel frammentato e violento scenario libico ci sono essenzialmente due strade per lavorare a una soluzione che porti, almeno, a elezioni nazionali legittimate da tutti gli attori.

La prima è quella della mediazione fra il governo di Tripoli e Haftar. È la linea su cui si muovono la Turchia e gli Stati Uniti.

Questi ultimi recentemente hanno aumentato la pressione politica nell’area, come dimostra anche la visita di qualche settimana fa (e che doveva nelle intenzioni rimanere segreta) del direttore della Cia, William Burns, che ha incontrato Dbeibah a Tripoli e Haftar a Bengasi, e lavorano per arrivare alle elezioni il prima possibile.

Questa è incidentalmente anche la strategia preferita dall’Eni: non va dimenticato che Farhat Bengdara, il capo della Noc che firmerà l’accordo, è considerato molto vicino al generale Haftar, che quindi aleggerà sulla missione italiana, pur non essendoci fisicamente.

La seconda strada passa dal dialogo fra l’Alto consiglio di stato, presieduto da Khalid al Mishri, e la Camera dei rappresentanti di Tobruch, guidata da Aguila Saleh, che non riconosce il governo di unità nazionale e appoggia il suo rivale non riconosciuto dalla comunità internazionale.

Questa è la linea sposata dall’Egitto e dalla Lega araba – con vari gradi di convinzione al suo interno – che ha praticamente disertato il vertice libico del 22 gennaio con il governo di Tripoli. I sostenitori di questa seconda strategia insistono sul fatto che i due organi, per quanto attraversati da laceranti divisioni politiche e tribali, sono gli unici che godono di una qualche legittimità democratica e danno continuità all’attività legislativa.

La scelta di Meloni

All’interno del governo convivono posizioni diverse sulla linea da tenere: qualcuno suggeriva di cogliere l’occasione del primo viaggio in Libia per assumere una posizione originale e porsi come mediatore privilegiato nel paese, incontrando (e perciò riconoscendo come interlocutori) i quattro player principali.

La presidente del Consiglio ha scelto invece di non incontrare al Mishri e Saleh, stando a quanto riferiscono fonti diplomatiche a Domani.

Lo si può leggere come un messaggio in continuità con la richiesta fatta da Draghi a Biden di «lavorare insieme per stabilizzare il paese». Oppure come un’occasione persa dal governo per ricostruire un ruolo centrale nella regione e servire con piglio decisionista il tanto proclamato interesse nazionale.

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