Prima dà dei «peones» ai senatori dell’opposizione, poi il ministro Roberto Calderoli si diverte a passare in rassegna gli errori degli avversari, spiegando che l’autonomia differenziata (delle regioni a statuto ordinario, ddl collegato alla manovra) che oggi la sinistra definisce «SpaccaItalia» è figlia, o almeno nipote, della riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal governo di centrosinistra – ma non dall’allora Rifondazione comunista, anche questo ricorda – e celebrata all’epoca con qualche fanfara di troppo. Del resto è una legge solo procedurale proprio per attuare il nuovo Titolo V: definisce le procedure per le intese tra lo Stato e le regioni che chiedono l’autonomia differenziata. La commissione dei saggi, con molte defezioni, sta provando a definire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, cioè gli standard minimi di servizio pubblico indispensabili per garantire in tutto il territorio nazionale i diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione. Ma sui Lep non è stato fatto alcun investimento. E FdI avrebbe ottenuto che finché non c’è il finanziamento l’autonomia di fatto non parte.

Per questo Calderoli non può cantare vittoria. Si rifà accusando la sinistra di incoerenza. Cita un Piero Fassino d’annata, un Vasco Errani, persino Liliana Segre, quando dice che «prima di cambiare la Costituzione, dovete attuarla». Grazie alla riforma del Titolo V Calderoli sente di poter dire: «Bene, io la attuo». Ma è un discorso tirato per i capelli, infarcito di mezze verità: il ministro non può raccontare al suo nord che di fatto non porta a casa un granché, ed è arduo sostenere che la legge non penalizzerebbe le regioni del sud, ormai abbandonate da Salvini, che in quella parte del paese ha dovuto cedere il passo al partito di Giorgia Meloni. Così non restano che le dichiarazioni di bandiera: a suo tempo aveva promesso le sue dimissioni se non fosse andato in buca. Alla fine si appella al santo del giorno, sant’Antonio, ma sbaglia quello: si raccomanda all’Antonio da Padova, e invece è il giorno di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali.

Comunque è inarrestabile: in aula legge anche l’assai più recente accordo del governo gialloverde, in cui M5s e Lega si impegnano a concedere alle regioni «maggiore autonomia in attuazione dell’art.116 terzo comma della Costituzione, portando a rapida conclusione le trattative fra governo e regioni attualmente aperte», «applicando la logica della geometria variabile», «Conte garante». Ciascuna forza nelle opposizioni, a parte la sinistra radicale, ha il suo scheletro nell’armadio.

Un altro referendum

Unite anche da un passato non del tutto innocente, le minoranze promettono battaglia: martedì scorso hanno convocato le piazze in molte città, e anche ieri hanno promesso che faranno di tutto per fermare la corsa del testo. Corsa che però da due giorni è partita in quarta al Senato. I numeri sono implacabili: ieri il Pd ha chiesto di far tornare il ddl in commissione: proposta senza storia, respinta con 101 no e 61 sì. In aula intervengono uno dopo l’altro, in prima linea combattono i senatori eletti dalle regioni del sud, si appellano ai compaesani della destra, soprattutto a quelli di Fratelli d’Italia a cui è stato fatto ingoiare un rospo per ragioni politiche: ai sardi si rivolge Marco Meloni (Pd), quelli «che stanno conducendo una dura battaglia per rimuovere l’attuale presidente di regione Solinas, che con tragico e ridicolo entusiasmo ha sostenuto il ddl Calderoli, forse pensando così di ingraziarsi il favore del suo capo Salvini. Con il vostro voto a favore vi caricate di una responsabilità enorme: pregiudicare il futuro della nostra terra per uno scambio elettorale dall’esito più che dubbio. Come potete votare questo provvedimento?»

Possono, perché si tratta di un «barattellum» (la definizione è di Andrea Martella, anche lui del Pd): Giorgia Meloni vuole sbandierare la bandierina del premierato in campagna elettorale, e Matteo Salvini vuole fare altrettanto con l’autonomia. La prima è una riforma costituzionale, ha tempi più lenti ma è già approdata in commissione al Senato; la seconda ha tempi veloci: già la prossima settimana sarà approvata a palazzo Madama e andrà alla Camera per essere licenziata prima delle europee. Ma per molti è solo un guscio vuoto. Calderoli comunque nega lo scambio: «Non c’è nessun baratto, avete la memoria corta. Nel 2005 la riforma che veniva chiamata “devolution” aveva al suo interno il premierato», dice. Anche per questo fu bocciata dal referendum popolare.

Che ora è il miraggio delle opposizioni. Che promettono battaglia con ogni mezzo possibile, in parlamento e nel paese. Il Pd convoca una conferenza stampa nel pieno del dibattito in aula. Promette la convocazione popolare. I deputati già preparano la battaglia a Montecitorio: «I Lep hanno un costo», spiega Marco Sarracino, responsabile Sud del Pd, «con questo ddl si legittima l’idea che si possa avere un diritto differenziato nel paese, dipende dal luogo in cui nasci».

Il compromesso

Oggi al Senato parte l’esame degli emendamenti. Subito arriverà al nodo del Lep. FdI ha imposto alla Lega l’emendamento firmato dal senatore Andrea De Priamo in base al quale i fondi per coprire i maggiori oneri per l’attuazione dei Lep – non ancora definiti, lo saranno in 24 mesi – saranno aumentati anche per le regioni che non chiederanno l’autonomia. È questo il punto che fa incupire i leghisti. Ma non rassicura neanche l’opposizione: «Non basta dire che si è frenata la portata disgregativa dell’autonomia con la definizione dei Lep, se prima il governo Meloni non dice come pensa di finanziarli. Altrimenti è solo ipocrisia», insiste Peppe De Cristofaro (Avs). Il presidente dei senatore Pd Boccia offre il voto del suo gruppo a supporto dell’emendamento di FdI «a condizione che non si firmi nessuna intesa fino a quando non saranno determinati i livelli minimi di prestazione». Ma per Calderoli vivono ancora le pre intese firmate con il governo nel 2018 da alcune regioni, fra queste c’è l’Emilia-Romagna, e il ministro si diverte a ricordare che in quel periodo Elly Schlein era vicepresidente. «Quegli accordi non esistono più, sono cambiate le condizioni», replica Boccia, «Questo ddl è uno dei disastri giuridici più imponenti della storia del paese».

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