«Nella riunione congiunta dei gruppi con il segretario, mercoledì scorso, abbiamo deciso di votare scheda bianca. Del resto avevamo fatto la stessa cosa anche la scorsa legislatura alla prima votazione. Mai avremmo pensato che nell’opposizione ci fosse qualcuno che pensava di fare stampella alla destra per eleggere La Russa».

Simona Malpezzi, capogruppo uscente, spiega la differenza fra la scelta della scheda bianca, giovedì al Senato, al momento dell’elezione del presidente, e quella di scrivere un nome, ieri alla Camera. Un collega invece sbotta: «Oggi sono tutti bravi a spiegarci quello che avremmo dovuto fare. Ma giovedì nessuno aveva sentore di quello che stava succedendo».

Ieri a Montecitorio, dopo lo scivolone a palazzo Madama – una ventina di voti dell’opposizione ha consentito l’elezione di Ignazio La Russa privo del sostegno di Forza Italia – Enrico Letta è corso ai ripari. Alle 9, alla riunione dei deputati, ha proposto di scrivere sulla scheda il nome di Maria Cecilia Guerra, bersaniana di Art.1, sottosegretaria all’Economia.

«È un profilo autorevole», ha detto. Un nome scelto con cura perché – in teoria – potabile per gli alleati e per i Cinque stelle. «Sono certo che su Guerra tutte le minoranze potranno convergere», ha aggiunto ancora Letta. Risultato: il Pd l’ha votata, +Europa e rossoverdi anche, ma con qualche mal di pancia («nome di livello ma Letta la smetta di dare ordini», filtrava dal loro capannello in Transatlantico). No M5s e terzo polo. Ma era scontato.

«Noi siamo per la pace, lo sapete», ha ironizzato Giuseppe Conte, che sulla scheda ha fatto scrivere ai suoi il nome del magistrato Federico Cafiero De Raho. I renziani neanche hanno risposto: il loro nome di bandiera è stato Matteo Richetti. «Ma era ovvio ce la saremmo votata da soli», spiega un deputato dem. «Al Senato abbiamo attaccato alzo zero Renzi, e con i Cinque stelle i rapporti sono ridotti a zero».

Due tiri, due flop

È iniziata dunque maluccio la legislatura del Pd a guida Letta. Due elezioni, due fallimenti. La campagna elettorale basata sull’«allarme democratico» tramontata definitivamente al Senato con quello che ormai per tutti è “Ignazio Benito” (primo e secondo nome di La Russa), uomo-simbolo della tradizione missina, e alla Camera con il nemico numero uno dei diritti civili, Lorenzo Fontana. «Peggio di così nemmeno con l’immaginazione più sfrenata. L’Italia, non merita questo sfregio», ha twittato il segretario.

Fontana per di più è un colpaccio per Matteo Salvini, che ha potuto fare i suoi giochi indisturbato: è un dito nell’occhio per il partito della legge Zan e delle armi all’Ucraina (ieri il deputato Zan con la neoeletta Rachele Scarpa ha aperto in aula lo striscione “No a un presidente omofobo e pro Putin”, mentre per Riccardo Magi «Fontana indica nella Russia di Putin un modello etico e sociale e indossa la maglietta contro le sanzioni e alla Russia»).

Ma è anche un duplice messaggio: ai suoi, perché Fontana rappresenta il Veneto leghista anti Zaia. E a Giorgia Meloni, che al Mef ha preteso Giancarlo Giorgetti, leghista di rito non salviniano e ministro di Draghi. In ogni caso il primo partito dell’opposizione non ha toccato palla.

La burla di palazzo Madama, poi, brucia parecchio. Al Nazareno non vogliono sentire parlare del fatto che dell’elezione di Ignazio Benito si sapesse prima del voto. Ma è possibile che in un gruppo dove siedono i super lettiani Francesco Boccia e Marco Meloni, quest’ultimo uomo ombra del segretario, nessuno ne avesse sentore? A palazzo Madama oggi siede anche il ministro Dario Franceschini, navigatore di lungo corso e sospettato di intelligenza con il nemico. A chi lo tira in ballo risponde con un tweet che cita un’aria del Barbiere di Siviglia: «La calunnia è un venticello».

Adesso inizia la partita degli incarichi: vicepresidenze delle camere, questori, segretari d’aula. Renzi prepara lo sgambetto: accusa Letta di aver stretto «un patto» con M5s per spartirsi i posti. Il leader Iv vuole per Maria Elena Boschi la presidenza della Vigilanza Rai o una vicepresidenza. Nella rosa del Pd ci sono nomi di peso: il ministro Lorenzo Guerini al Copasir, oppure Enrico Borghi. Per le vicepresidenze si parla di Nicola Zingaretti, Andrea Orlando, Debora Serracchiani e Alessandro Zan (sarebbe un colpo simbolico contro Fontana); al Senato, di Anna Rossomando, Marco Meloni e Valeria Valente.

Le rose si intrecciano con quelle per le capogruppo. Letta chiede di eleggere due donne: meglio confermare le uscenti. Ma l’ala sinistra chiede un ricambio. Se ne riparla martedì, per ora si procede al buio. Per Letta il rischio di perdere il polso dei gruppi parlamentari è alto. La proposta di un coordinamento delle minoranze, caldeggiata anche da Orlando, al secondo giorno di legislatura è già seppellita.

E rischia di portarsi via anche le residue possibilità di stringere accordi per le regionali, appuntamenti cruciali per il segretario uscente ma non dimesso. Che rischia di restare in sella solo per intestarsi le prossime sconfitte. Come una bad company sui cui tutti riversano le responsabilità degli errori di tutti.

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