Enrico Letta è stato eletto segretario del Partito democratico quasi un anno fa. Il 14 marzo del 2021 con voto quasi unanime (furono solo due i contrari e quattro gli astenuti) l’assemblea nazionale del Pd si era rivolta a lui quale ultimo appiglio per rilanciare l’azione di un partito esanime. L’uscente Nicola Zingaretti aveva parlato di «partito del potere» nel quale «si parla solo di poltrone».  

Veltroni e il Lingotto

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La storia del Pd è tormentata. Nato nel 2007 per scelta deliberata, ma anche per stanchezza e consunzione dei due partiti fondatori, Ds e Margherita. Le forze riformiste, cattoliche e socialcomunista, sono arrivate all’altare della unione con il discorso del Lingotto che ha incoronato Walter Veltroni alla segreteria nazionale.

L’allora sindaco di Roma è stato è stato indicato da quasi tutti i maggiorenti di Margherita e Democratici di sinistra e poi ha vinto le primarie.

Letta era tra contendenti, e seppur in una logica poco competitiva e con un vincitore predestinato, aveva ottenuto l’11 per cento dei voti, un po’ meno di Rosy Bindi.

Il “discorso Lingotto”, alto nei contenuti, ambizioso nelle prospettive e innovativo nei metodi, è oggi ricordato e citato come una occasione mancata.

Nel 2008 Veltroni ha portato il partito al massimo storico per una forza di sinistra dopo il 1992, ma questo non è bastato a placare le ire funeste di dirigenti frustrati, di esautorati, esclusi e delusi dal nuovo corso.

Non sono state le prestazioni elettorali in Sardegna, figurarsi, a decretarne la fine, ma le facce torve dietro di lui sul palco che proprio non non concepivano che uno solo potesse avere tutto quel “successo”. E porsi come guida della sinistra italiana per gli anni a venire, dopo l’eccellente risultato delle politiche del 2008.

Al momento di presentare le dimissioni, Veltroni ha detto che lui non concepiva un «partito-Vinavil» che tenesse incollato qualsiasi cosa, avebbe voluto una forza capace di «far diventare il riformismo maggioranza nel paese».

In quei mesi usciva in libreria un saggio della giornalista Alessandra Sardoni, Il fantasma del leader. Era il 2009, e il centrosinistra cercava una guida, o forse la evocava soltanto, ma la evitava. Da allora  il Pd non ha cessato mai di sfiancare, delegittimare, sminuire, attaccare, contestare, e infine defenestrare i propri segretari. 

Segretari e fasi politiche

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Undici segretari in nemmeno quindici anni. Nove se si escludono gli interim. Una media di 464 giorni da segretario (546 se escludiamo gli interim/servizio di Martina e Orfini). Pier Luigi Bersani e Renzi (I) spiccano con segreterie longeve, oltre mille giorni, cui seguono Zingaretti (728) e Veltroni poco meno di un anno e mezzo (489). Seguono, infine, Renzi (II), Franceschini e Epifani con meno di un anno di segreteria.   

Alcune date sono importanti. Oltre alla nascita e alle dimissioni indotte di Veltroni, va segnalata la primaria del 2012 davvero contesa tra Bersani e Renzi per la guida del centrosinistra alle imminenti politiche, finita appannaggio del primo, ma che ha aperto la strada alla lunga segreteria del secondo dopo la “non vittoria” alle elezioni del 2013 di Bersani stesso.

Dopo la parentesi gestionale di Epifani per gli affari correnti, Renzi ha conquistato la segreteria sconfiggendo Gianni Cuperlo e rimanendo in carica fino a poco dopo l’esito del referendum costituzionale del 2016.

Rivinte le primarie contro il ministro Andrea Orlando, Renzi ha lasciato succeduto da Zingaretti. Il resto è storia recente. 

La fase a guida Veltroni, e la cosiddetta “vocazione maggioritaria” è molto più simile a quella di Renzi, sebbene con più personalizzazione nel caso dell’ex sindaco di Firenze. Mentre, Bersani e Zingaretti, per storia politica e personale, sono maggiormente accomunati anche per la loro interpretazione del centro-sinistra, delle istituzioni e del partito.

Il tempo di Letta

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Letta si pone in una posizione intermedia tra i due poli “estremi”, consapevole di governare un partito molto simile alla Democrazia cristiana e al Partito socialista quanto a correnti, che sono in grado di impedire a chiunque di governare.

L’azione di rilancio organizzativo, le Agorà e il nuovo “Ulivo-campo largo” sono un tentativo di uscire dall’angolo e tenere insieme i pezzi del mosaico piddino. Il frazionismo è una iattura non solo del Pd, ma dell’intera sinistra italiana, che tra l’altro sarebbe stato condannato certamente da Lenin per eccesso di individualismo.

Possibili sorprese

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Letta nella classifica della durata è giunto al fatidico anno intero. Trecentosessantacinque giorni non facili, ma nemmeno di passione. Passaggi complicati, tesi e difficili, gestiti nel complesso con grande abilità, tenuta di nervi, buona tattica e una strategia che si intravede, ma che forse andrebbe esplicitata già dalle prossime settimane in vista del 2023.

Il governo Draghi, la rielezione di Sergio Mattarella, le elezioni amministrative, la guerra in Ucraina, la pandemia e il Pnrr. Un equilibrismo ragionato, ma non statico, rispetto alla precedente esperienza da capo del governo allorché il giovane Letta rimase impigliato nelle trame tra Pd, alleati di coalizione e ministeri.  

Se arrivasse (almeno) fino alla fine della legislatura i giorni alla guida del Pd arriverebbero quasi a settecento. E, dunque, giungerebbe alle elezioni politiche del 2023, quale segretario in carica.

In quel caso rischierebbe di superare la durata della segreteria di Zingaretti, al netto del risultato elettorale che potrebbe proiettarlo alla conferma della segreteria e dunque in lizza per una delle tre piazze del podio occupato da Bersani e da Renzi (prima segreteria).

Letta pare avere impresso maggiore spinta al Pd rispetto a Zingaretti che aveva puntato tutto sul rapporto con il M5s e Giuseppe Conte.

È riuscito a dare l’impressione di essere il partito più filo Draghi (intesa come agenda di governo), dalla pandemia e ora con l’Ucraina. Se proseguisse così, e rilanciasse l’agenda di lotta alle disuguaglianze, potrebbe anche sorprendere qualcuno e costruire una coalizione più competitiva del previsto.

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