«Non ci sono piani B. Farò il deputato e basta». Per la sua nuova vita Enrico Letta preferisce evitare la formula «deputato semplice». Ricorda quella ad alto tasso di ipocrisia di Matteo Renzi, «senatore semplice». Resterà in parlamento, continuerà ad occuparsi di formazione politica per i giovani e di Europa, e a andare a Parigi, dove è ancora presidente della Fondazione Delors. Formalmente lo scambio di consegne con il suo successore avverrà a marzo. Alla vigilia dell’esito delle primarie meglio non fare bilanci, dunque, l’uomo resta prudente, generoso e protettivo. Giusto qualche parola: «Lascio un partito che ho preso sull’orlo dell’implosione. Per due anni l’aspirazione all’unità è stata non retorica trita, ma pratica concreta, forse per la prima volta dalla nascita del Pd. Deve essere la nostra ossessione. Certo è stata la mia, anche a costo di mordermi talvolta la lingua, e fingere di non vedere falli in e fuori area». Nella speranza che con il nuovo segretario, o la nuova, non riporti il partito sull’orlo iniziale.

Per Letta, richiamato a Roma da Parigi nel marzo 2021 come un salvatore, la segreteria consegnatagli dai maggiorenti del Pd doveva essere il riscatto della defenestrazione da palazzo Chigi del 2014 per intrigo di Renzi (ma anche per voto a stragrande maggioranza della direzione del partito, mai dimenticarlo). Invece non è andata così. Lui dissimula l’amarezza, per orgoglio e disciplina etica, «ci sono cose che terrò per me», dice. In primis la consapevolezza che «i molti errori» che gli vengono imputati non sono suoi, o non solo suoi. I dirigenti dem lo sanno, dunque non lo hanno mai messo apertamente sul banco degli imputati. Almeno stavolta non lo cacciano con la formula sarcastica di quella prima volta, «ringraziandolo per il notevole lavoro svolto alla guida del governo». Né lui se ne andrà lanciando maledizioni come ha fatto il suo predecessore Nicola Zingaretti. Tuttora mai motivate: «Mi vergogno che nel Pd da venti giorni si parli solo di poltrone e primarie».

Eppure la missione di Letta aveva un baco. E il baco era la linea politica che gli veniva lasciata in dote dal fuggente: la nascita del governo Draghi, dopo la quale Zingaretti si dimette, già lascia intravedere la fine del “campo largo” su cui il Pd ha scommesso, con Conte premier e «punto di riferimento». I Cinque stelle entrano nel nuovo esecutivo scalciando come muli: hanno tutto da perdere. Il loro progressivo indebolimento li obbliga alla rottura con il governo e con il Pd. Ma questo un anno dopo. A marzo ‘21, facendo atto di fede in quell’alleanza, Letta imbocca un vicolo cieco. Se ne accorge solo alla vigilia delle politiche. Tutto il resto, errori, ingenuità e scivolate, possono essere anche severamente giudicate. Ma sono solo piatti di contorno.

Solo l’Ucraina

L’ultimo atto da segretario Letta lo ha fatto sabato sera a Roma alla manifestazione per l’Ucraina. Lui stesso ha definito la collocazione rocciosamente filoatlantica e filoKiev del Pd «la sua eredità». Una scelta ineccepibile ma antipopolare. Eppure inevitabile. Lo ha rivelato ai suoi il 6 ottobre ‘22, all’indomani della sconfitta elettorale: «Abbiamo pagato un costo elettorale. Ma siamo stati dalla parte giusta della storia». Da lì però è partita «l’instabilità che fa vincere la destra».

Non resta traccia invece delle creature che aveva considerato il core business della narrativa del «nuovo Pd», le Agorà democratiche, assemblee di iscritti e esterni con cui ha provato ad “aprire il Pd”. Letta ci ha creduto. Il suo partito meno, ma lo ha seguito senza fare storie. Centinaia di riunioni in presenza e online. Secondo Michele Bellini, uno dei giovani che si è portato da Science.Po, sono emerse «959 proposte, di cui diverse confluite nel programma». “Diverse”, quantitativo non misurabile. Per la verità oggi il segretario con i suoi ammette il flop: colpa della piattaforma «complicata», e di un problema che riguarda molte democrazie occidentali non ancora pronte per la «democrazia partecipativa». «È convegnistica partecipata, una scelta politologica anziché una linea politica», dirà Matteo Orfini al chiuso di una riunione di direzione.

Dal marzo ‘21 fino a luglio ‘22 comunque Letta ha il vento in poppa. Il Pd all’inizio dell’anno nuovo risulta il migliore in campo nella partita delle elezioni del Colle, da cui viene rieletto Sergio Mattarella. Va forte a due successivi turni di amministrative; Roma Milano Bologna Napoli e Torino sono una abbagliante infilata di vittorie. Ma poi arriva il luglio ‘22, mese «horribilis»: la rottura di Conte, la caduta di Draghi. Il Pd, da testa a testa con Fdi ben oltre quota 20 per cento, perde in un mese sei punti.

Qui c’è una questione contestata, e tutta scaricata sulle spalle del segretario. Dalla mancata fiducia a Draghi, Letta capisce che Conte non ha intenzione di fare l’alleanza alle politiche per riprendersi i consensi attraverso un riposizionamento radicale. Il segretario Pd è deluso e sconfitto (fino all’ultimo non ci ha creduto, in buona compagnia), esagera i toni, lancia ostracismi contro gli «irresponsabili». Sopravvaluta – oggi Letta lo ammette - la popolarità dell’ex banchiere. Il presidente della Puglia Michele Emiliano e Francesco Boccia lo scongiurano di fare accordi tecnici con M5s almeno al Sud. Ma la legge elettorale non lo consente, e neanche l’arrabbiatura di Letta. Che intanto conduce confusamente gli accordi elettorali con i rossoverdi e il Terzo Polo. Calenda firma poi rompe. Va tutto male. Anche la macchina elettorale immaginata per marzo 2023 e sullo schema di un’alleanza si schianta sul settembre 2022 e in una sconsolante solitudine.

A quest’altezza si innesta quello che da alcuni viene considerato un altro errore di analisi. Letta ha «l’intuizione» Elly Schlein: prima l’ha nominata fra gli «osservatori» delle Agorà, ora la promuove sua comprimaria della campagna elettorale. Attraverso lei richiama i delusi, e fin qui tutto bene. Ma dà l’impressione di scommettere su di lei come la leader di una futura ricostruzione di una sinistra anti-Meloni. Invece i riformisti del Pd la giudicano minoritaria e inadatta a raccogliere un’ampia alleanza.

L’atteggiamento su lei cambia anche al Nazareno. Lo racconta la progressiva migrazione su Stefano Bonaccini di quasi tutti i collaboratori di Letta, a partire dal suo braccio destro Marco Meloni, con le eccezioni del vice Peppe Provenzano, di Francesco Boccia e del capo dell’organizzazione Stefano Vaccari. Sui due candidati il segretario uscente resta equidistante. Ma è sempre più chiaro che è più affine a Bonaccini: per esempio sulla guerra, e sul giudizio su Giorgia Meloni («capace», aggettivo che fa saltare i nervi ad Andrea Orlando).

Non è andato tutto bene neanche nel partito. Il ricordo «politico e umano» più bello per Letta è il gruppo che lo aiuta a vincere le suppletive a Siena. Ma al Nazareno le voci di dentro raccontano qualche rapporto difficile. Con la vicaria Irene Tinagli, nominata con entusiasmo, si misura persino qualche distanza politica sui dossier di Bruxelles.

Dopo la sconfitta

Dopo la sconfitta Letta resta «per spirito di servizio» ma lancia un congresso “costituente” per allargare il partito. Un allargamento che si risolve nel rientro di Art.1 (premiato in anticipo con cinque posti sicuri nelle liste delle politiche) e nel via libera alla candidatura di Elly Schlein alle primarie. Così il congresso rallenta di due mesi, e in Lazio e in Lombardia il Pd si ritrova a fare campagna per le regionali senza leader, senza linea e mentre a Roma il «comitato costituente» discute di ordoliberismo. E rischia il testacoda sul nuovo manifesto dei valori: poi si insabbia la discussione assumendo la nuova carta ma anche quella vecchia.

Morale: il Pd perde in entrambe le regioni. Ma la verità è che non perde per questo. Perde per quello che dicevamo all’inizio: anche in quelle regioni, senza alleanze larghe la missione era impossibile.

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