L’indagine su Luca Sammartino è un grosso guaio per Matteo Salvini. A lui si era affidato per contenere i danni alle prossime elezioni europee. La fiducia era stata ripagata, perché Sammartino è riuscito a scippare un big di Fratelli d’Italia, Raffaele Stancanelli, per candidarlo con la Lega.

Il leader leghista, tuttavia, non può certo autoassolversi politicamente. Intanto perché conosce la storia politica di Sammartino, la sua abilità nell’esercizio del trasformismo e del gioco del cambio casacca. E sa che il suo prescelto siciliano, proprio per le caratteristiche appena accennate, è garanzia di pacchetti che possono valere decine di migliaia di voti. Sammartino ha una truppa personale di elettori, che votano lui o chi lui dice di votare. In sintesi è la figura ormai mitologica definita dalle parole “ras”, “cacicco” o “portatore di voti”. Salvini non era all’oscuro di questa preziosa dote politica di Sammartino.

Ingaggiato dalla Lega nel 2021, non certo per le sue idee sovraniste, ma perché proprietario di voti, che in 12 anni si sono triplicati sul territorio: a 27 anni con i democristiani dell’Udc conquistò 12mila e passa voti; nel 2017, nel Pd da renziano convinto, alle regionali superò ogni record incassando oltre 32mila voti; nel 2022, dopo aver lasciato Italia viva, si candida con la Lega e regala a Salvini 21mila preferenze.

Una garanzia. Incline ai guai giudiziari, soprattutto alla corruzione elettorale. Salvini sapeva certamente dei suoi processi. Quindi ha scelto consapevolmente che il volto della Lega in Sicilia, terra martoriata dal malaffare, doveva essere un ras dei voti, spesso sporchi. Sono scelte di cui un leader dovrebbe assumersi la responsabilità e nel caso risponderne politicamente.

Sammartino perciò non è un incidente di percorso dovuto al caso. Piuttosto è una pedina di una strategia elaborata da Salvini non ora, ma radicata nel progetto politico di una Lega nazionale. In pochi ricordano chi è il primo leghista di Sicilia. Angelo Attaguile: democristiano di lungo corso, figlio di un ministro scudocrociato, parente di un sindaco di Catania sempre della Dc.

Era il 2015 e Matteo Salvini, a due anni dal suo insediamento come segretario della Lega Nord, lanciò la marcia sul Sud. L’inizio della mutazione genetica del partito, che da forza del Nord e federalista cambia pelle per diventare nazionale e sovranista. Attaguile portò nella Lega transfughi di vari partiti del centrodestra, ex democristiani, berlusconiani. Tutti con una caratteristica: grandi raccoglitori di voti e professionisti della clientela non per forza fondata sulla corruzione, ma di quella assai tollerata nel nostro paese imperniata sul favore, la cortesia, la furbesca attitudine al privilegio più che alla rivendicazione dei diritti collettivi.

Il leader leghista non si è curato dei consigli di quei leghisti nostalgici della Lega Nord, che avevano allertato il Capitano del sovranismo italiano sulla pericolosità di imbarcare chiunque al Centro-Sud. Ma, all’apice del successo elettorale, Salvini ha tirato dritto convinto che solo così avrebbe realizzato il sogno di una Lega nazionale. Disposto persino a correre il rischio di doversi difendere da scandali interni e bombe giudiziarie innescate dal voto di scambio, dalle incestuose relazioni con le cosche e dal metodo spregiudicato del controllo del bacino elettorale.

Salvini deve sperare che l’amico ministro Matteo Piantedosi si dimentichi di inviare i commissari nel comune di Tremestieri Etneo, il cui sindaco, fedelissimo di Sammartino, è accusato di voto di scambio con la mafia catanese. Se Piantedosi usasse lo stesso metro di misura adottato per Bari (amministrata dal Pd), la decisione sarebbe scontata e coerente. Ma forse prevarrà l’amichettismo governativo.

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