La protesta è ormai diventata una variabile cruciale nel comportamento di voto in Italia, ma anche in molti altri paesi. Esistono due tipi di protesta. La prima rispetto alle élite, alla classe dirigente e al governo in carica. La seconda nei confronti del sistema, che prende di mira i “tratti democratici” (partiti, politici ecc.) della politica e il funzionamento stesso della democrazia.

Le ricerche comparate indicano che la maggior parte del voto di protesta si è rivolta contro le élite politiche rispetto al sistema politico in quanto tale. Al fine di esprimere il proprio malcontento, gli elettori pensano di “inviare un messaggio” alle élite sostenendo i cosiddetti partiti di protesta. I quali non sono esclusivamente quelli all’opposizione, ma quanti dichiarano di rappresentare la protesta stessa. L’agenda di questi partiti è spesso fondata sul rigetto del sistema esistente, nonché su un’aspra critica verso la classe dirigente e il governo in carica. In questa prospettiva l’Italia rappresenta un caso peculiare sia sul piano teorico che su quello empirico.

L’impatto del voto di protesta è stato particolarmente rilevante a partire dal 1994, ma dal 2013 la forza dei partiti di protesta e il malcontento elettorale sono cresciuti significativamente. L’ascesa del Movimento 5 stelle è solo l’apice di un fenomeno iniziato con la Lega nord e le intemerate di Umberto Bossi contro «Roma ladrona», il sud e tutto ciò che era politica e stato, sostenuto da Forza Italia e da Silvio Berlusconi fustigatore dei «politici di professione», ma che ha avuto un suo peso anche nei due referendum costituzionali: quello del 2016 trasformato in una protesta popolare contro Matteo Renzi e quello del 2020 trasformato dal M5s in una protesta contro il parlamento e i parlamentari.

Un film già visto

In questo contesto, le prossime elezioni politiche potrebbero essere la replica di quelle svoltesi nel 2013. Il voto che ha reso il sistema tripolare (centrodestra, centrosinistra, protesta) ha rappresentato una cesura rispetto al passato.

Il voto contro tutto e tutti ha trovato terreno fertile soprattutto tra giovani. Il 44 per cento di loro ha scelto i grillini per protestare verso una “casta” sorda, o presunta tale. Il clima sociale, la percezione politica e gli istituti di rilevazione indicavano una crescente presenza di intenzioni di voto per il non-partito fondato da Beppe Grillo, ma quasi nessuno aveva previsto un exploit. Il passaggio cruciale che ha portato il M5s a divenire primo partito in Italia è stata la nascita del governo guidato da Mario Monti.

È stato facile per il M5s stigmatizzare la “grande alleanza”, derubricata a consociazione e trasformismo. La decisione del presidente Giorgio Napolitano di procedere a un governo di larghe intese, sostenuto da tutti tranne la Lega nord, ha rappresentato l’innesco della protesta. La combinazione tra misure politiche impopolari, crisi economica e sfiducia nelle istituzioni ha nutrito la belva populista.

Il M5s non ha dovuto far altro che mettere in campo le azioni pianificate per “l’esperimento” (si veda in tal senso il volume di Jacopo Iacoboni), come in un laboratorio nel quale si erano prodotte le condizioni perfette per testare gli effetti del moto popolare contro la democrazia rappresentativa.

Secondo molti elettori i governanti erano divenuti insensibili alle istanze popolari. Il cortocircuito governo/opposizione aveva bloccato il fisiologico gioco della responsabilità e per molti elettori è stato complicato attribuire premi o sanzioni rispetto a quanto fatto in parlamento. Tutti i partiti sostenitori del governo Monti hanno subito pesanti perdite a beneficio del M5s, il quale è giunto a un quarto dei voti validamente espressi, un record per un partito alla sua prima apparizione nazionale (nel 1994 Forza Italia aveva raggiunto il 21 per cento). 

Orizzonte 2023

Tra meno di un anno lo scenario potrebbe rinnovarsi, con l’alternanza di partiti e attori in scena. Il governo in carica guidato da Mario Draghi dal febbraio 2021 vede il sostegno di tutto l’arco parlamentare, con l’esclusione, tra i partiti rilevanti, di Fratelli d’Italia.

Molti si sono espressi circa la crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni e taluni hanno anche tentato di interpretarne le cause. Dalla popolarità della leader, al rinnovato afflato italico per la destra, al declino della Lega nord e al conseguente riflusso verso l’estrema. Tutte interpretazioni plausibili, ma che omettono un fattore centrale: il voto di protesta.

Il partito erede di Alleanza nazionale ha il principale “pregio” di essere l’unico a non sostenere Draghi e quindi beneficia, senza colpo ferire, di tutte le frustrazioni dell’elettorato. Da quelle per la crisi economica generata dalla guerra in Ucraina agli effetti del (post) pandemia passando per le storiche criticità del paese.

La campagna elettorale in vista delle politiche è iniziata ma, come nel 2013, i partiti fanno fatica a distinguersi, ad apparire diversi dagli storici avversarsi. In questa condizione anche mobilitare solo i propri aficionados diviene esercizio complicato, proprio per l’impossibilità di indicare politiche identitarie.

Il governo di “grande coalizione” produce una sintesi che sul piano del mercato elettorale può alimentare la protesta, offuscando le responsabilità. Certamente non è l’unico fattore a favorire la crescita di FdI: la presenza di uno zoccolo duro di destra nostalgica, la catastrofe della Lega nord sotto la guida di Matteo Salvini, la crisi di regime del partito di Berlusconi e il permanente anticomunismo senza comunisti di molti italiani, sono tutte variabili concorrenti. Il collante è però la protesta che le unisce e le veicola a favore di Meloni. Che in questo meccanismo è ininfluente.

I governi di coalizione

Il voto di protesta è in rapida ascesa in quasi tutto il mondo occidentale, ma in Italia ha assunto proporzioni patologiche anche per la presenza al governo di partiti di protesta. Il biennio del governo Monti e quello del governo Draghi potrebbero avere in comune un esito elettorale: nel 2013 a favore del M5s, nel 2023 di FdI. Casi dissimili quanto a partiti, ma analoghi quanto a protesta. Sebbene uno presente da “sempre” in parlamento, l’altro entratoci da poco.

In mezzo al guado il Pd, architrave dei governi di “unità nazionale” cui ha sempre garantito linfa e sangue. Grandi prove di responsabilità, ma pochi frutti da raccogliere al momento delle elezioni. In Italia quella della grande coalizione è diventata un scelta quasi strutturale, soprattutto negli ultimi dieci anni, ma con molte differenze rispetto ad Austria o Germania dove il programma è discusso prima, per mesi.

Inoltre dal 2013 a oggi, quattro presidenti del Consiglio, Mario Draghi, Mario Monti, Giuseppe Conte e Matteo Renzi, non erano eletti al momento dell’incarico. Il che non rappresenta una frattura istituzionale, tantomeno una forzatura costituzionale, ma una decisa debolezza politica, che alimenta la protesta. La quale monta e colpisce tutti. Nessuno ne è immune.

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