Nel documentario Meet me in the Bathroom (2022) proiettato in questi giorni in alcuni cinema italiani, i registi Will Lovelace e Dylan Southern ricuciono in una sola lunga storia riprese giornalistiche e materiali privati sulla musica dei primi anni Zero a New York, seguendo i protagonisti e riscoprendone i luoghi. La scena rock immediatamente rinata dopo del trauma dell’11 settembre 2001 contava gruppi come The Strokes, Interpol, Yeah Yeah Yeah, Rapture, James Murphy.

Non esattamente omogenei dal punto di vista dello stile, ma legati al fascino perduto della Manhattan anni Settanta: il Lower East Side dei Television e dei Ramones, il Village di Dylan e Coltrane, la Bowery di Andy Wahrol. Gli Strokes soprattutto. Smesse le camicie di flanella del grunge e i berrettini del nu rap, si presentavano di nuovo in giacca, cravattina e giubbetti di pelle come superstar uscite dalla Factory, nuova eleganza da mercatino dell’usato che li rendeva differenti da tutto il resto. Belli e rock’n’roll, suonavano quasi come i Television, ed erano brillanti, ironici, ricchi di famiglia. Il loro primo album Is this it?, atteso proprio l’11 settembre e uscito il 25, fu (e resta) un classico istantaneo.

Nostalgia vivida

Ricostruzione esageratamente vivida, doppiamente nostalgica, quella di Meet me in the bathroom. Dalle immagini dimenticate nei nastri e nei camcorder personali ricompaiono volti e strade, club, bar, concerti, corse in macchina. I concerti al Mercury Lounge. Le immagini del cantante degli Interpol Paul Banks che si aggira tra la polvere e i fogli bianchi piovuti dalle Torri Gemelle poche ore dopo il macello.

La storia di Karen O cantante degli Yeah Yeah Yeah che di punto in bianco lasciò New York per Los Angeles, tagliando per sempre i ponti con la sua adolescenza rock’n’roll. Era l’unica ragazza di quelle band. Chiese a Debby Harry come comportarsi, lei rispose: «Goditela, finché puoi».

La scelta dei registi è quella di tenere soltanto nella colonna audio le voci coi ricordi, registrati molti anni dopo per iniziativa della giornalista Elizabeth Goodman. Con spirito di celebrazione dei propri vent’anni, Goodman è stata autrice di un grosso volume pubblicato nel 2017 al quale il documentario è ispirato e che ora viene tradotto in Italia da Odoya. Stesso titolo, quello della canzone degli Strokes dedicata dal cantante Julian Casablancas a un suo affaire con Courtney Love («Vediamoci al bagno/ giusto due scopate di solo sesso/ Mi hai insegnato a non innamorarmi dopo avermi spiegato come si fa»).

Stesso mood: il retroscena, pure il gossip (specialmente su droghe, pasticche e fattanze di vario genere) nella conversazione a distanza tra musicisti internazionalmente noti che in qualche modo hanno accompagnato una nicchia generazionale, giornalisti e critici che li hanno raccontati, la nostalgia inevitabile che ne consegue. La «fatica di spendere tutto il tempo che ti resta a rincorrere il periodo dell’innocenza», come dirà alla fine uno degli Strokes. I quali, detto tra parentesi, non si sono mai ufficialmente sciolti.

La prova del tempo

Una delle trappole retoriche più frequenti della critica musicale, specie quella spicciola da social, è la “prova del tempo”: cosa resterà di quei cantanti? E di quelle canzoni? Cosa resterà, per dirla con il vecchio Raf, di questi anni Ottanta? “Restare” ha oltretutto diversi significati, estetici, morali. Si addice al rock più classico, molto meno a quello che viene dopo: “post” per stile, cultura, tecnologia e distribuzione. Ma più passano gli anni, più si perfezionano gli strumenti di memoria e si allarga la capienza degli archivi, più si dovrebbe rispondere: tutto. Resterà tutto.

Il lavoro di Lizzy Goodman è così importante perchè scarta volutamente l’obbligo ermeneutico della critica, lascia in secondo piano l’ossessione dello scavo biografico e il narcisismo dell’intervista, sposa invece la capacità evocativa del dialogo, nell’ingolfarsi e srotolarsi della memoria. È frutto di molti anni di lavoro, di una fiducia cercata e guadagnata, sbobinature e rimontaggio. La “verità” di questa storia orale di un piccolo gruppo di artisti ragazzini in una grande metropoli, spiega come dopo il trauma dell’11 settembre New York cambiò profondamente anche reagendo ai loro stimoli, e pure cannibalizzandoli, in pochissimo tempo.

L’ultimo cambiamento

Sarebbe stata l’ultima volta. Il repulisti del sindaco Giuliani, eroe dell’11 settembre e poi figura imbarazzante del trumpismo, quello della “teoria della finestra rotta” tanto cara alle nuove destre, chiuse dapprima l’enclave abbandonata da dio e dagli uomini nella quale a sud di Manhattan era potuto sorgere per esempio un posto come il Cbgb, culla della new wave anni Settanta, e svilupparsi il mito. Il processo di gentrificazione continuò sotto gli altri sindaci.

La “guerra culturale” – nota il giornalista Carl Swanson – lasciò il posto alla trasformazione della città in un parco giochi di lusso. Con gli effetti devastanti che si colgono specialmente ora in periodo post-Covid. Giusto l’altro giorno in un’editoriale per il New York Times l’economista di Harvard Edward Gleaser rifletteva sulla vuotezza spettrale dei palazzi per uffici in centro sostenendo (lo fa da un po’) che sarebbe venuto il tempo di tornare ai quartieri di una volta coi negozi, il cinema, i bar, la gente.

Passano pochi anni, e nella seconda parte del libro dedicato all’altra metà degli anni Zero, Goodman può già raccogliere le testimonianze di una nuova scena, quella che dalla vecchia e troppo cara Manhattan si trasferisce oltre il ponte a Williamsburg/Brooklyn. La musica di Williamsburg fu elettrizzante quanto la precedente, solo di qualche anno più giovane ma nuovissima, diversa, percorsa com’era dalla retromania e dal citazionismo più folle dettato dalle nuove possibilità offerte della Rete. Ma era ancora profondamente newyorkese.

I capofila Vampire Weekend, universitari della Columbia, assomigliavano stavolta ai Talking Heads. Dirty Projector, Grizzly Bear, Panda Bear, tutti intelligentissimi e sofisticatissimi, venivano scaricati online, discussi dalla nuovissima rete dei blogger, cantati da riviste online come Pitchfork e, naturalmente, da Vice, la Bibbia degli hipster. «Perché eravamo poveri, non potevamo permetterci di non venire a Williamsburg», ricorda tra le testimonianze Suroosh Alvi, uno dei fondatori di Vice.

Ex fanzine per skaters, ex rivistina gratis di cose da fare in città, poi gruppo internazionale valutato fino a sette miliardi di dollari con investimenti di Murdoch e Disney, attualmente in crisi, Vice negli ultimi anni si è aperta una strada nella produzione televisiva, ed è per inciso tra i produttori del documentario.

Il bilancio generazionale sembra toccare anche la sua sorte: sono degli ultimi mesi le voci di un possibile fallimento del gruppo che ha segnato nel bene e nel male il giornalismo radicale e giovanilista degli ultimi dieci-quindici anni. Notizia che la stragrande maggioranza dei giornali italiani ha dato nei giorni scorsi con una specie di soddisfazione quanto meno sospetta, considerando lo stato delle cose.

I processi che ci cambiano

Tutto questo per spiegare perché Meet Me in the Bathroom (il film e soprattutto il libro) è un documento molto più importante di quel che sembra. Dietro la musica (quasi tutta buona, anche ottima) che si è tirata dietro tutto, dietro la scontata nostalgia di una generazione di oggi quaranta-cinquantenni, fanno capolino i processi sociali che hanno rivoltato le nostre vite. Williamsburg è stato uno dei laboratori di gentrificazione urbana più influenti e feroci. È stato ripetuto con esiti differenti in centinaia di città di tutto il pianeta, fino ai nostri Pigneto e Isola, con le birre artigianali, le biciclette, i vini naturali, i locali tutti uguali, la ricorsa impossibile all’Autentico, la definitiva maledizione hipster.

Dice nelle ultime pagine di Meet me in the bathroom Tumbe Adebimpe, fondatore e cantante dei Tv on the Radio: «Conservavo ogni poster o volantino dei posti in cui suonavamo. Un amico mi ha detto “dovresti davvero metterli insieme e farci un libro”, e io ho risposto “sì, dovrebbe essere un libro in stile Taschen, super elegante, con tutti questi poster e un po’ di parte scritta, e dovremmo intitolarlo Lo abbiamo tenuto in caldo per voi stronzi”».

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