Giorgia Meloni si è da poco calorosamente intrattenuta con «il leader più amato al mondo», il premier indiano Narendra Modi, uno che ha fatto di tutto per bloccare un documentario della Bbc che racconta, fra molte altre cose, le sue responsabilità nelle persecuzioni della minoranza musulmana.

La visita ha segnalato la sua affinità per quel modello indentitario-nazionalista, e non serve cercare molto fra i sostenitori più estremi di Modi per trovare nostalgici ammiratori del fascismo italiano. 

Oggi Meloni aggiunge Benjamin Netanyahu alla lista degli amici problematici ai quali segnalare, con tempismo infelice, devozione e vicinanza. Un gesto diplomaticamente notevole, visto che il premier israeliano in questo momento non ha molti partner pronti a srotolargli il tappeto sotto ai piedi. 

Da mesi Bibi è assediato in patria da proteste e manifestazioni oceaniche per le leggi con cui il suo governo di coalizione con l’estrema destra e gli ultraortodossi vuole subordinare di fatto la Corte suprema al potere esecutivo, seguendo un classico schema ungherese-polacco molto apprezzato anche dalle nostri parti.

L’iniziativa ha incontrato la resistenza della società civile e l’eloquente freddezza degli alleati internazionali. Dopo l’insediamento, Netanyahu non è stato ricevuto, secondo l’usanza, dal presidente degli Stati Uniti, che anzi si è lanciato in un irrituale commento sulla necessità di un potere «giudiziario indipendente» e ha affidato al segretario di Stato, Antony Blinken, messaggi non proprio concilianti sulla condotta del governo.

La pressione è tale che il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha accorciato la sua visita in Israele di oggi, che sarà punteggiata di manifestazioni, blocchi stradali e cortei, ormai sfondo stabile della vita del governo Netanyahu.

Sotto assedio

Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha ricevuto il premier assediato dalle critiche, ma gli ha riservato una cena all’ultimo minuto all’Eliseo evitando dichiarazioni pubbliche della vigilia e soprattutto omettendo la conferenza stampa in conclusione. Si è curato di far sapere che ha incalzato con decisione l’alleato orbanizzato sul rispetto dello stato di diritto, e poi ha licenziato un freddo comunicato che deliberatamente ignorava la questione.

Il viaggio a Roma si annuncia diverso. Le compagnie aeree si rifiutano di portarlo sul mezzo che desidera e perfino la traduttrice designata si è pubblicamente sottratta all’incombenza, ma Meloni per il momento ha mantenuto intatto il protocollo.

Deve dare un doppio messaggio: da una parte, una rassicurazione rivolta al passato, dopo tante abiure del fascismo a parole. Dall’altra, la solidarietà all’alleato Bibi e implicitamente al suo progetto di deformazione del potere giudiziario, il marchio della sua coalizione. Il sentimento dominante è l’ammirazione, forse con una punta di invidia.  

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