Anche nella più grande democrazia del mondo la libertà ha i suoi limiti. Il 17 gennaio è uscita la prima parte di “The Modi Question”, un documentario britannico che esamina il ruolo avuto dal primo ministro indiano, Narenda Modi, nelle rivolte del 2002 nello stato Gujarat. Il documentario ha presentato nuove prove del fatto che Modi, allora primo ministro del Gujarat, permise ai rivoltosi indù di uccidere impunemente centinaia di musulmani in uno dei peggiori scoppi di violenza religiosa nella storia moderna del paese.

La risposta del governo al documentario è stata rapida ed efficace. Già il 21 gennaio il Ministero dell’Informazione e delle Telecomunicazioni aveva emesso un ordine restrittivo che bandiva “The Modi Question” dai social media. Gli utenti indiani di Twitter e YouTube hanno ricevuto un avviso legale che diceva che il contenuto era stato cancellato.

La mossa non è arrivata di punto in bianco. Come molti altri paesi, l’India ha a lungo cercato di regolamentare i contenuti, compresi quelli online, e negli ultimi anni questi sforzi sono aumentati in modo significativo. Nel 2014 Twitter ha ricevuto un totale di venti richieste legali per rimuovere materiali non approvati in India. Nel 2021 ne ha ricevute quasi novemila.

Le piattaforme social non hanno sempre accettato le richieste: nel 2021 il governo ha denunciato pubblicamente Twitter per non aver risposto alle richieste relative alla copertura degli agricoltori che protestavano contro una nuova legge agricola. Tuttavia, alcuni giorni dopo, il Ministero dell’Elettronica e dell’Informatica ha emanato nuove leggi per rafforzare la capacità del governo di costringere le aziende a rimuovere i contenuti ritenuti «dannosi per la sovranità e l’integrità dell’India, la sicurezza dello Stato, le relazioni amichevoli con gli Stati esteri o l’ordine pubblico». Con l’atto di repressione di questo mese la reale entità della presa di potere è diventata chiara.

Le responsabilità 

Possiamo incolpare le società social media per come si sono comportate? Sono soggette alle leggi dei paesi in cui operano e le conseguenze per il mancato rispetto di queste leggi possono essere gravi. Nel 2019, il governo ha minacciato condanne a sette anni di reclusione per i dirigenti indiani di Twitter che non avevano aderito alle richieste di rimozione di “contenuti discutibili e provocatori”. La rimozione di qualche dozzina di post inizia a sembrare il minore dei due mali.

E non è poi che la soppressione dei contenuti funzioni davvero. A differenza degli stati autoritari monopartitici, i paesi democratici come l’India sono altamente inclini all’effetto Streisand, in cui l’atto di censura fa sì che il materiale bandito si diffonda ulteriormente. Di conseguenza, le ricerche di “The Modi Question” sono state maggiori nei giorni immediatamente successivi all’annuncio della repressione e in tutto il paese sono iniziati a essere organizzati eventi per guardare il documentario.

Ad ogni modo, a rischio c’è un principio importante. Proteggere la persona dal suo governo è la base della libertà di espressione, il vero fondamento di una società libera. L’India si è mossa insidiosamente verso la censura aperta per anni e le società di social media devono sapere che una volta che gli stati capiranno di poter con successo forzare le piattaforme a rimuovere i contenuti, richieste simili arriveranno con più frequenza e più velocemente.

L’episodio poi non è capitato in un vuoto. Al di là delle questioni di repressione legale, i social media sono coinvolti in una seria resa dei conti culturale sulla moderazione dei contenuti e sui confini del discorso accettabile. L’anno scorso Elon Musk è diventato l’amministratore delegato di Twitter con la promessa esplicita di promuovere la libertà di parola, ma cedendo alla censura in India, ha sbagliato un test cruciale.

Analizzando questo panorama è difficile non avere la sensazione che alle società di social media manchi una strategia regolamentata e coerente per trattare il discorso pubblico. I dirigenti delle aziende tech sono essenzialmente reattivi, schiacciano i problemi sul nascere. Si piegano alle pressioni culturali e legali ogni volta che sono costretti a farlo, mettendo a repentaglio la coerenza e la trasparenza del processo.

Cambio di paradigma

C’è una soluzione. Le società di social media possono orientarsi nell’unica direzione che consentirà loro di assumere una posizione di principio evitando gli imbarazzi che le hanno afflitte negli ultimi anni: invece di accogliere passivamente il discorso, possono diventare piattaforme attive di discorso.

Cosa comporta questo? Per quanto riguarda la spinosa questione della moderazione, significa adottare un insieme chiaro di politiche informate dai principi del primo emendamento, cosa che gli esperti stanno già chiedendo. Le piattaforme dovrebbero dare la priorità alla prevenzione di potenziali danni imminenti e partire da lì. Questo non significa che vada bene tutto: gli sforzi per proteggere i minori dal materiale pornografico o per sospendere le persone che invocano la violenza diretta sarebbero comunque consentiti. Ma significa porre fine a una prassi che è diventata standard, e cioè che eserciti di moderatori cerchino a casaccio di eliminare le notizie false o, peggio, di prendere decisioni in base alle pressioni politiche.

È importante sottolineare che le aziende devono tendere alla coerenza e alla chiarezza più che all’improvvisazione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Ogni nuova regola deve essere pubblica, trasparente e razionale. Gli utenti dovrebbero sapere a che punto sono queste aziende e cosa possiamo aspettarci da loro.

Questo richiederebbe loro anche di abbandonare i mercati che li costringono a violare palesemente i loro principi. È vero: Twitter ha 24 milioni di utenti in India che presumibilmente non vogliono disconnettersi. Ma i social media non sono affatto l’unico mezzo con cui le persone comunicano e accedono alle informazioni. Facebook e Twitter sono più di semplici servizi di messaggistica e queste aziende devono accettare che, per quanto potenti, non possono essere tutto per tutti. Possono negare le richieste di censura finché è sicuro farlo, ma alla fine, ritirarsi dalle giurisdizioni che non rispettano la libertà di parola è l’unico modo per tagliare il nodo gordiano che sta attualmente rovinando la loro reputazione.

Un prezzo accettabile

Se le piattaforme si riorientassero “a favore del discorso” una conseguenza potrebbe essere la continua proliferazione di notizie false, cosa che potrebbe risultare inaccettabile per molti. Eppure ci sono modi sensati e proporzionati per mitigare questo che non implicano una compromissione dei principi. Per prima cosa, la parola può essere usata per combattere la parola. Proprio l’anno scorso Twitter ha introdotto una funzione che permette agli utenti di “aggiungere contesto” sotto i tweet che possono essere fraintesi. Questo semplice strumento potrebbe sgonfiare seriamente il sensazionalismo e le falsità.

Le aziende inoltre possono attuare riforme strutturali per creare una piazza pubblica più sana. Si potrebbe modificare la funzione di retweet o l’ordine delle timeline per garantire che le voci più incendiarie non vengano amplificate per impostazione predefinita. Jonathan Haidt ha proposto l’idea che chiunque voglia creare un account social, anche anonimo, debba prima verificare di essere un essere umano (magari tramite una terza parte no profit per tutelare la privacy).

Se questa riforma verrà attuata, sarà probabilmente controversa. Eppure, ad esempio, l’idea che una persona abbia il “diritto” di creare impunemente un bot è uno strano prodotto dell’era di Internet, che non corrisponde a nessuna visione ragionevole della libertà di parola tramandataci dalla storia. Essere “a favore del discorso” dovrebbe significare adottare un’ampia gamma di strumenti per rendere le piattaforme più sane e più rispettose della verità.

È improbabile che questi cambiamenti si verifichino presto. Implicano un significativo salto psicologico e finanziario e le società di social media non hanno alcun incentivo ad abbandonare un mercato come l’India o a ripensare l’attuale modello di coinvolgimento acchiappaclick.

Eppure gli incentivi in ultima analisi dipendono dagli utenti che continuano a frequentare le piattaforme. Man mano che continuano ad emergere storie negative come la restrizione su “The Modi Question”, le persone inizieranno a chiedersi quante capitolazioni, ipocrisie e inversioni a U sono disposte a sopportare da parte dei dirigenti delle aziende social. Se la riforma viene da qualche parte, verrà dal basso. Non è questa la visione democratica che Big Tech ha sempre cercato di venderci?
Questo articolo è stato pubblicato dalla testata online Persuasion. Traduzione di Monica Fava

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