Il gioco della sedia sulle nomine di stato continua. La musica non si è ancora spenta, e a Palazzo Chigi qualcuno crede che i tempi potrebbero allungarsi rispetto a quelli ipotizzati: da fine marzo, le decisioni sui nuovi capi di Eni e delle altre partecipate potrebbero slittare alla settimana santa.

Domani ha già raccontato i profili dei pochi decisori politici che hanno reale margine per determinare (la premier Giorgia Meloni, la sorella Arianna e i due giannizzeri Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano per FdI; Matteo Salvini e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per la Lega; Silvio Berlusconi e Gianni Letta per Forza Italia), oltre al borsino ragionato dei candidati che hanno maggiore chance di saltare sulla poltrona.

Rispetto a quanto scritto in precedenza bisogna però annotare qualche novità. Claudio Descalzi, ad di Eni e consigliere di Meloni sicuro della riconferma, per quanto riguarda la presidenza del Cane a sei zampe non solo ha detto di no a un possibile arrivo di Paolo Scaroni, ma spera che la maggioranza individui una figura non ingombrante.

I decisori hanno nella busta nomi coperti, e qualcuno pensa che dopo Lucia Calvosa possa toccare a un’altra donna. Qualcuno fa il nome del capo del Dis Elisabetta Belloni, che però non sembra affatto intenzionata a muoversi anzitempo dal coordinamento dei servizi segreti. Tanto che risulta a chi scrive che la stessa Meloni, con cui la civil servant ha ottimi rapporti, crede che i suggerimenti siano strumentali a liberare la casella del dipartimento delle informazioni per la sicurezza, assai ambito.

Soprattutto, risulta che l’impasse sul risiko sia dovuto al muro che Lega e Forza Italia hanno alzato rispetto allo schema proposto da Meloni, che prevede di fatto come sia lei a scegliere quasi tutti i vincitori del gioco, lasciando agli alleati scranni di poco valore. «Qualcosa Giorgia la deve mollare: i ritardi sono dovuti al fatto che non ha ancora deciso a cosa rinunciare», dice a Domani un ministro leghista.

Chi vuole Cattaneo

Una delle figure chiave che potrebbe scompaginare le previsioni della vigilia che danno, oltre all’Eni, quasi sicuro il ticket Stefano Donnarumma-Scaroni all’Enel e la riconferma di Matteo Del Fante a Poste, è quella di Flavio Cattaneo. Forse il manager d’area più competente che la destra ha nel suo carniere. Ma che nella partita non ha trovato ancora una casella sicura.

Cattaneo da giorni smentisce ufficialmente che sia interessato alla faccenda delle nomine, e ripete di essere concentrato solo sul business della sua Itabus e sulla possibile vendita miliardaria di Italo, prevista entro gli inizi del 2024. I bene informati, però, non gli credono. E sostengono che suoi sponsor di peso come Ignazio La Russa e Francesco Gaetano Caltagirone (che stravede per lui tanto da averlo cooptato di nuovo nel cda di Generali) hanno puntato su di lui come successore di Francesco Starace all’Enel.

Ex direttore generale della Rai, per nove anni capo di Terna, infine ad di Tim e poi di Ntv, il manager ha tutti i numeri per guidare il colosso elettrico. La sua possibile scalata, però, ha trovato l’opposizione di Meloni. Perché ha già promesso l’incarico a Donnarumma, innanzitutto. E perché su Cattaneo – nonostante un curriculum che altri tecnici d’area si sognano – ha qualche riserva mentale. Tanto da aver chiesto a Fazzolari, quando il presidente del Senato le ha proposto la candidatura al telefono, di trovare il modo di “sabotarla”. Seppur con eleganza.

Qual è l’origine dei dubbi di Meloni? I fattori sembrano essere due. Cattaneo, risulta a Domani, era stato invitato insieme a Donnarumma alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia del 1 maggio 2022, e aveva inizialmente accettato di parteciparvi. Solo poco prima dell’inizio del meeting, però, ha dato forfait. Chiamando Meloni e spiegandole che due giorni dopo, il 3 maggio, avrebbe avuto il suo primo cda di Generali, e che dunque la sua presenza a una kermesse politica forse non era opportuna.

Meloni ha fatto buon viso a cattivo gioco, ma non ha apprezzato il diniego: fanatica dell’affidabilità, teme che uno autonomo come Cattaneo (anche perché ricco come Creso) una volta nominato non risponda più a lei, ma ad altri. Meloni, a torto o a ragione, crede pure che l’architetto diventato dirigente d’impresa sia infatti troppo vicino a una “cordata” di cui la premier non si fida affatto. Un network che andrebbe da Alessandro Daffina di Rothschild a Caltagirone, dallo stesso Scaroni a fondi d’investimento stranieri (quelli, per esempio, che hanno investito in Italo).

«L’assunto è reale. Meloni a volte soffre di una sorta di “sindrome da accerchiamento”. Per esempio vede male il nome di Scaroni spinto verso Enel da Berlusconi e Salvini, perché lo considera troppo legato al lobbista Luigi Bisignani. Ma qualcosa ai partner della maggioranza dovremmo pur dare», spiega un importante esponente di Fratelli d’Italia che fa da mediatore sul tavolo della grande spartizione.

Sia come sia, i dante causa di Cattaneo hanno mangiato la foglia. Così prima hanno allargato la base politica dei suoi fan, aggiungendo a La Russa anche Salvini, che ha pure invitato il manager e la moglie Sabrina Ferilli al compleanno dei suoi 50 anni. Poi hanno spostato le loro attenzioni su Poste. Per la cronaca, diventare ad dell’azienda che ha in pancia società assicurative e bancarie permetterebbe al capo di Ntv di ottenere anche i titoli necessari per andare a dirigere, in futuro, un istituto di credito e finanziario.

Il piano, che a Salvini non dispiacerebbe affatto, ha però davanti un muro che appare insormontabile. Meloni ha infatti grande stima dell’ad Matteo Del Fante e del condirettore generale Giuseppe Lasco. La presidente del consiglio, nonostante Del Fante sia entrato nel giro delle partecipate di Stato ai tempi del governo Renzi, gli riconosce capacità finanziarie e il rilancio del colosso. Soprattutto vorrebbe che l’ad e il suo braccio destro avessero un altro mandato a disposizione (il terzo) per portare a termine il Progetto Polis, che lei sposò pure quando era solo una leader di opposizione.

Un progetto da 1,2 miliardi che vuole potenziare, in tutti i 7mila comuni italiani sotto i 15mila abitanti, lo sportello postale, che dovrebbe diventare una sorta di hub unico della pubblica amministrazione. Un’idea che è stato benedetta dal presidente Sergio Mattarella in persona («Poste tiene connessa l’Italia», ha detto), pure ospite d’onore all’evento romano che lo scorso gennaio ha presentato Polis. «C’erano ben 14 ministri del governo, cinquemila sindaci e il segretario di Stato Pietro Parolin: per i fan di Cattaneo e per quelli che chiedono discontinuità politica, muovere Del Fante non sarà operazione facile», dice un forzista vicino al dossier.

Per questo Salvini ha recentemente ipotizzato che il manager potrebbe essere indirizzato sulla poltrona di ad di Leonardo, dove i giochi sono più aperti. Difficilmente, però, il nome avrebbe l’ok del ministro della Difesa Guido Crosetto, e lo stesso Cattaneo potrebbe avere più di una remora a guidare una realtà particolare come la multinazionale delle armi.

Salvini il ferroviere

Sia come sia, Enel e Poste sono casematte che Meloni considera roba sua, e farà fatica a mollarle. Anche perché crede che Salvini, con il suo 8 per cento preso alle ultime politiche, non può esagerare con le richieste per la Lega. Il ministro delle Infrastrutture potrebbe comunque fare il pieno nel comparto omonimo, uno dei più ricchi e strategici del bouquet delle nomine.

L’ad di Fs scelto da Draghi Luigi Ferraris è in scadenza nel 2024, e non verrà cambiato in anticipo. Il Carroccio però indicherà quasi sicuramente il nuovo capo di Rfi, che ha in pancia oltre 20 miliardi di fondi del Pnrr.

Se è assai improbabile l’arrivo di Stefano Siragusa, ex Tim e amico di Bisignani, Salvini ha invece già incontrato gli “interni” Vincenzo Macello e Umberto Lebruto. Manager esperti che conoscono perfettamente la rete ferroviaria, ma che sono ancora imputati insieme a una decina di tecnici nel processo per il disastro ferroviario di Pioltello. Anche se hanno entrambi buone skills, qualcuno crede che per motivi di opportunità potrebbero non essere inseriti nella short-list. Si vedrà. Il ministro intanto dice ai suoi uomini dice che stavolta vuole «premiare la competenza e non l’appartenenza», accarezza l’idea di un top esterno, e in silenzio punta anche al numero uno di Trenitalia (dove si fa il nome di Luigi Corradi).

Se Ferraris resta di sicuro, anche Anas resterà ogni probabilità regno di Aldo Isi, uomo ddell’ad che potrebbe tenersi la poltrona per qualche mese, nonostante qualcuno ne vaticini ancora la rimozione. Qualche media ha addirittura immaginato possa essere proprio Isi il futuro commissario del Ponte sullo Stretto. Fosse vero, significa che Salvini ha deciso di abdicare alla possibilità di designare un suo fedelissimo su un’opera miliardaria che lui considera strategica, ma nella lega pensano che «l’ipotesi sia meno probabile di una nevicata a Capri durante Ferragosto».

Lo stipendio di Gorno Tempini

È però un fatto che la destra sembra volere uno spoil system meno aggressivo di quanto si immaginava prima delle elezioni. In Rai il draghiano Carlo Fuortes è ancora in sella, anche se qualcuno è certo che sarà sostituito dalla coppia Roberto Sergio-Giampaolo Rossi appena Meloni gli troverà un altro incarico adeguato (la sovrintendenza del Teatro la Scala di Milano è un’offerta che il manager della cultura non rifiuterebbe). Mentre in Cassa depositi e prestiti l’attacco ai vertici tentato qualche mese fa dalla cordata timonata dal sottosegretario Alessio Butti sembra essersi infranto sul niet della Meloni.

Palazzo Chigi manterrà con molte probabilità Dario Scannapieco al suo posto, sperando che il draghiano riesca a trovare il bandolo della matassa della partita della rete nazionale della fibra, che vede protagonisti anche Tim e alcuni fondi stranieri. La posizione è di stallo totale, e come è noto le recenti offerte di Kkr e di Cassa sono state ritenute largamente insufficienti da Tim. Gli azionisti di maggioranza sono i francesi di Vivendi che, ad ora, non intendono aprire trattative serie a chi fa una valutazione della rete in mano a Tim (di cui Cdp è azionista con il 10 per cento) inferiore ai 24-25 miliardi di euro.

Il dossier è strategico per il paese, e foriero di tensioni e polemiche costanti. Sul governo. Su Tim, Open Fiber e l’ad Scannapieco, in primis. Ma da qualche tempo anche sul presidente di Cdp Giovanni Gorno Tempini, uomo forte delle fondazioni bancarie e già ad di Via Goito ai tempi di Franco Bassanini.

Dentro Vivendi, per esempio, credono che Gorno Tempini dovrebbe imitare Arnaud de Puyfontaine, ceo di Vivendi che qualche tempo si è dimesso dal cda di Tim per “semplificare” la trattativa sulla rete. Dentro Cassa e in qualche stanza di Palazzo Chigi, poi, qualcuno sottolinea non solo il potenziale conflitto d’interesse, ma è infastidito in merito agli emolumenti del presidente, “reo” di non riversare a Cdp alcuni gettoni che prende come membro di altri cda di società controllate.

Gorno guadagna come presidente di Cassa quasi 300 mila euro, a cui somma 40 mila euro come membro del cda di Cpd Equity e altre 20 mila per Cdp reti. «In tutto cuba 355 mila euro l’anno», dice il suo ufficio stampa. A questi aggiunge i 75 mila che prende come consigliere di Tim. I suoi nemici credono che il presidente, che quando viene a Roma alloggia al lussuoso De Russie a spese di Cdp, debba incassare esclusivamente lo stipendio da presidente, e riversare all’azienda i gettoni del cda, «come è consuetudine».

L’ufficio stampa di Gorno Tempini (un consulente esterno che risulta pagato da Cpd) chiarisce che è vero nessun emolumento che Gorno prende da Cassa viene ridato all’azienda. E aggiunge che nel caso di Tim «se non riversa, e io non lo so, come vuole la prassi forse è dovuto al fatto che lui non è stato messo nel cda della telefonica da Cassa. Lui è stato messo nella lista dei francesi, quando i rapporti tra Vivendi e Cdp erano buoni. A testimonianza della fase favorevole, Vivendi disse: “Sei un socio importante, metti un tuo rappresentante”. E propose Gorno, che accettò. Ma non è che Cdp ha diritto ha un posto in consiglio e per effetto di questo diritto esprime lei dei consiglieri».

In merito al conflitto di interessi potenziale, il consigliere per la comunicazione di Gorno dice: «In Tim lui si astiene su ogni argomento che riguarda Cassa o rete unica, quindi il problema non esiste». Ad ora, comunque, non c’è alcun indizio che Gorno si dimetta da Tim. Né – suggeriscono fonti dal ministero dell’Economia che ha il controllo della società - che la sua posizione di presidente «venga messa a rischio da polemiche sul suo stipendioAnche perché, a questo giro di nomine, in Cdp non si muoverà niente». Salvo sorprese ad oggi non prevedibili.

4 - fine

 

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