Non importa se Giorgia Meloni abbia detto “che merda” o “che meriti” mentre ascoltava l’intervento di Giuseppe Conte alla Camera martedì.

Quel che importa è che il labiale attentamente osservato al var di palazzo Madama ha segnalato una reazione, un sussulto in una premier esordiente altrimenti impegnata nello sforzo di contenersi di fronte agli interventi dell’opposizione.

Il sussulto verbale probabilmente è emerso perché quello di Conte è stato non solo uno degli interventi più potenti nel dibattito sulla fiducia, ma è stato quello che ha sfidato Meloni nella realtà alternativa in cui lei domina incontrastata.

Spieghiamo meglio. Gli argomenti espressi da Conte nel solito italiano claudicante (memorabile il padre di famiglia «rottamato» e rappresentato come «tossicoindipendente» da quelli come Meloni) non reggono a un’elementare prova di logica e si squagliano rapidamente se si va in cerca di un minimo di coerenza politica.

Conte ha rimproverato a Meloni una «rivendicata continuità con il governo Draghi» (che il M5s ha sostenuto, salvo poi ravvedersi), l’ha accusata di aver fatto «un’opposizione morbida, a tratti compiacente» (sempre allo stesso governo), ha rinfacciato alla premier di aver scelto per il ministero dell’Economia una persona che ha «praticato il metodo Draghi» (la stessa che era sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel Conte I) e ha tuonato contro una filosofia ispiratrice del neonato governo che ha definito «neoliberismo di ispirazione tecnocratica». Niente male come sintesi per questo improvvisato Engels con la pochette.

È evidente che questi argomenti sono incredibilmente deboli se letti alla luce del vecchio principio di non contraddizione, roba da boomer o da professori di Sciences Po.

Questa è esattamente la luce che oscura la loro reale forza persuasiva, la loro capacità di mobilitazione politica, cioè le qualità che hanno fatto sembrare la performance contiana gigantesca rispetto a molti altri confusi vagiti dell’opposizione.

Nel metaverso dei Cinque stelle i vecchi paradigmi non valgono più e i princìpi della dinamica politica sono privi di efficacia e valore. Cercare di applicarli non è solo frustrante per la ragione, ma è politicamente pericoloso per chi si avventura in un tentativo di confutazione.

Nell’atmosfera controllata dei populisti pentastellati una Meloni draghiana è un concetto perfettamente lineare, il rimprovero durissimo per aver sostenuto (o non abbastanza ostacolato) quelli che fino a un attimo prima erano solidissimi alleati non comporta alcuna perdita di credibilità, anzi.

Al suo esordio in parlamento Conte parlava, naturalmente, da leader politico di un movimento che giusto qualche mese fa sembrava sepolto e invece ha tallonato il Pd, doppiato la Lega, umiliato il terzo polo.

Conte si è reinventato in tempi brevissimi leader della sinistra antagonista approfittando dei vuoti lasciati dal Pd, ma questa è solo la superficie, il travestimento dell’operazione.

Più profondamente, il M5s ha continuato a lavorare sulla manutenzione di un universo epistemico parallelo in cui le scale contemporaneamente salgono e scendono, come in un quadro di Escher. Conte ha interiorizzato la lezione di Trump, non quella di Mélenchon.

È stato questo, più che un’offerta politica che oggi è così e domani chissà, a tenere aggrappati gli elettori di un movimento che si porta su ogni colore.

Guardando attraverso questo specchio deformante si capisce il motivo del turbamento di Meloni, che a sua volta ha costruito un’identità politica che vive di contraddizioni, petizioni di principio e fallacie logiche avvolte nel destrorso mantello della coerenza.

Al governo si trova in una posizione fisiologicamente scomoda: è costretta ad argomentare, razionalizzare, sistematizzare, deve guidare e costruire secondo una logica intelligibile.

In altre parole, deve muoversi in un mondo in cui le leggi della ragione hanno ancora un qualche valore. Conte può invece cavalcare a briglia sciolta nelle praterie dell’illogico, che sono povere di concetti ma spesso ricche di consensi.

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