La notizia non è Vittorio Sgarbi che si dimette. È, piuttosto, Vittorio Sgarbi che si dimette per una inchiesta giornalistica. Dovrebbe essere normale, e in effetti lo è nella gran parte dei paesi democratici, in cui il ruolo dell’informazione libera è protetto e difeso: uno strumento di controllo della funzione pubblica, capace di ridurre eccessive concentrazioni di potere.

Meno nel nostro paese, dove una inchiesta basata su fatti dimostrabili e fonti verificate, realizzata offrendo a tutti gli attori citati la possibilità di spiegare il senso dei propri atti, determina un diluvio di insulti e accuse. Verso i giornalisti, naturalmente. In questo caso il cronista che qui scrive.

All’augurio di una morte in un incidente stradale, ho risposto con uno scongiuro. A gesti platealmente volgari, interpretati con straordinarie doti attoriali a vantaggio della telecamera, con uno sberleffo. Molto più grave, invece, l’accusa di essere un criminale, di inventare prove e notizie, di svolgere processi mediatici per il puro piacere della notorietà.

L’onorevole Sgarbi mi ha anche denunciato per stalking e ha chiamato la polizia per difendersi da qualche domanda puntuale posta in un luogo pubblico. Poiché il critico d’arte ha l’ardire di definirsi un liberale, in quell’occasione, a latere dell’intervista, ho provato a spiegargli che il liberalismo è tutt’altra cosa, e tra i suoi dogmi ha libera stampa.

La decisione dell’Antitrust

Alla fine Sgarbi, nel discorso con cui ha annunciato le sue dimissioni, mi ha chiesto scusa. Scuse accettate, naturalmente. Purché siano chiari i ruoli. Il politico deve svolgere il suo compito mettendo al centro l’interesse pubblico, il giornalista controlla che ciò avvenga davvero. Non è difficile, non serve essere un professore. Ci si scontra, si litiga, si urla a volte. Ma ognuno svolga il suo ruolo e rispetti quello dell’altro, se no finisce nella guerra di tutti contro tutti.

Se n’è accorta, a quanto ci è dato di sapere, anche l’inquilina di palazzo Chigi, Giorgia Meloni, che pur non sempre ha un buon rapporto coi giornalisti. Perché le dimissioni partono anche da lì. E da una maggioranza che, dinanzi alla mozione di sfiducia presentata ormai due settimane fa dall’opposizione, rischiava di non riuscire più a fare muro in difesa del sottosegretario. È anche questa, una buona notizia.

Che le inchieste, realizzate insieme al collega Thomas Mackinson del Fatto quotidiano, avessero più che qualche fondamento, lo dimostrano le tre diverse indagini che ne sono scaturite. La prima è quella nata dalle dichiarazioni dell’ex collaboratore di Vittorio Sgarbi, Dario Di Caterino, che con una montagna di documenti ha dimostrato come il sottosegretario mescolasse con grande maestria il suo ruolo istituzionale con quello professionale.

Il tariffario era noto, bastava mandare una mail a eventi@vittoriosgarbi.it. Duemilaeuro un intervento di un’ora, 4mila una prefazione, 5mila lo spettacolo teatrale. Tra 1.000 e 2.000 la visita in una casa privata, per verificare se tra i lasciti di un avo sconosciuto ci fosse magari un capolavoro. Entrate di tutto rispetto: 300mila euro in 9 mesi.

Si può fare insieme il sottosegretario e tutto ciò? Probabilmente no, ed è quello che lunedì 5, con ogni probabilità, leggeremo nella sentenza dell’authority, che ha agito su input, val la pena ricordarlo, del ministro Gennaro Sangiuliano. Il “capoufficio” dell’indisciplinato sottosegretario, infatti, aveva ricevuto direttamente da Di Caterino quella montagna di prove, e l’aveva girata – come di dovere – all’authority.

La cattura di San Pietro

La seconda indagine è nata invece da un’inchiesta congiunta di Report e del Fatto Quotidiano, e riguarda la sparizione dell’ormai famosa cattura di San Pietro del caravaggesco Rutilio Manetti. Sgarbi lo ha esposto nel 2021 in una mostra, ma un’opera, che appare del tutto identica, era stata rubata nel 2013 in un castello in Piemonte. L’unica differenza è una candela in alto a sinistra.

Per Sgarbi sono due dipinti diversi, anzi, il suo è quello vero, l’altro una pessima copia. Ma troppe coincidenza mettono in dubbio la sua versione. Un suo collaboratore, Paolo Bocedi, si era recato al castello a chiedere di comprare l’opera poche settimane prima del furto; Sgarbi consegna quel quadro proprio nel 2013 al suo restauratore di fiducia, Gianfranco Mingardi, e in quel caso l’opera non ha la candela.

Un frammento trovato a casa della vittima del furto coincide con un buco nel quadro consegnato a Mingardi. Da una scansione ad alta qualità dell’opera emerge poi che la candela sarebbe stata aggiunta. La versione di Sgarbi, infine, sembra molto debole: l’opera sarebbe stata ritrovata in una villa di sua proprietà, in un sottotetto. Ipotesi credibile, se non fosse che l’unico testimone del ritrovamento citato dal sottosegretario non ne sapesse nulla.

Ultima indagine, quella sul Valentin de Boulogne, il Concerto con Bevitore. Un vero capolavoro, che vale probabilmente milioni. Sgarbi lo ha fatto acquistare nel 2014 a un suo autista, per 10mila euro, da una famiglia che si trovava in difficoltà economiche.

Lo fa restaurare sempre a Mingardi, e poi tramite un intermediario lo avrebbe spedito a Montecarlo, dove una commerciante d’arte si sarebbe impegnata a venderlo, nel contesto di un’importante fiera d’arte a Maastricht, in Olanda. Solo che i carabinieri seguivano quell’intermediario e sequestrano l’opera a Montecarlo, nel 2021.

L’esportazione illecita di opere d’arte – il reato per cui Sgarbi e i suoi collaboratori sono indagati – è piuttosto grave. Specie se a compierlo è un sottosegretario del ministero della Cultura. Lo è politicamente, prima che a livello giudiziario. L’Italia è una miniera di opere d’arte, e non è una metafora.

Per secoli mercanti d’arte di tutto il mondo sono venuti qui a estrarre la nostra arte e l’hanno portata all’estero. La tutela del nostro patrimonio culturale è il compito principale per cui nasce il ministero della Cultura e il Codice dei beni culturali.

Sgarbi era al ministero per proteggerlo il Valentin, per portarlo in un museo, non per venderlo. Il critico d’arte risponde che l’opera non è sua, era di un curatore di nome Augusto Agosta Tota, che non può smentirlo, perché è morto. Ma per conto suo lo fa la figlia: non ha mai visto quell’opera, suo padre si occupava d’arte contemporanea. Lo smentiscono pure il restauratore Mingardi e l’uomo che gli ha venduto l’opera.

La procura di Imperia, che indaga, si avvia naturalmente a chiedere il rinvio a giudizio. Anche qui, il sottosegretario è innocente, fino a prova contraria. Ma se ai giornalisti, purtroppo, si può rispondere con insulti e accuse, dinanzi alla giustizia non conviene farlo.

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