In occasione del naufragio di decine di migranti dinanzi alle coste del crotonese, le autorità italiane hanno espresso messaggi di cordoglio, e non poteva essere diversamente. Ma c’è più di una nota stonata in quei messaggi.

Le politiche sull’immigrazione del governo, infatti, formulate in spregio alle regole contenute in una serie di convenzioni internazionali, rappresentano la concreta manifestazione sul piano giuridico di un atteggiamento di noncuranza per la vita umana che non solo viola qualunque principio di diritto, ma che contrasta anche con il fondamento della società civile.

Il cordoglio di Giorgia Meloni

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in un comunicato ufficiale ha espresso «il suo profondo dolore per le tante vite umane stroncate dai trafficanti di uomini», aggiungendo che «il governo è impegnato a impedire le partenze, e con esse il consumarsi di queste tragedie».

Peccato che Meloni abbia omesso di chiarire cosa significhi «impedire le partenze». In termini astratti, ciò significa collaborare con le autorità dei paesi di partenza dei migranti per fermare chi provasse a uscirne. In termini concreti, l’azione si traduce nel sovvenzionare le guardie costiere di quei paesi affinché operino un controllo dei confini, quindi dei flussi migratori, con qualunque mezzo. Ciò comporta, innanzitutto, delegare a tali Paesi eventuali respingimenti – non si fa distinzione tra chi avrebbe diritto a protezione internazionale e chi invece no, in violazione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33) – con le connesse violazioni dei diritti umani.  Insomma, la collaborazione con quegli Stati è un modo per non “sporcarsi le mani”.

Impedire le partenze significa anche consentire, come nel caso della Libia, di intercettare i migranti che si apprestano a prendere il mare per portarli nei centri definiti «di accoglienza». Negli ultimi anni sono state documentate dall’Onu violazioni dei diritti umani da parte delle autorità libiche, con detenzioni arbitrarie in condizioni disumane all’interno di quei centri ove, peraltro, le organizzazioni internazionali hanno accesso limitato e non possono monitorare la situazione e fornire assistenza come servirebbe. Centri nei quali avvengono orrori inimmaginabili: così il segretario generale per i Diritti umani dell’Onu, Andrew Gilmour, definì le atrocità commesse nei confronti dei migranti.

Ma di questo la presidente del Consiglio non parla. Anzi, in occasione dell’ultimo viaggio in Libia, Meloni ha chiesto alle autorità del paese di «fare più sforzi contro migrazioni irregolari» e promesso cinque motovedette per consentire alla Libia di svolgere in modo ancora più efficace l’attività di controllo delle frontiere. Del resto, l’Italia segue la strada della “esternalizzazione delle frontiere” a partire dal memorandum di intesa Italia-Libia, siglato nel 2017 dall'allora ministro dell'Interno Marco Minniti, poi rinnovato in seguito, con la finalità esplicita di tenere i migranti al di fuori dei confini italiani.

Ma la responsabilità non è solo italiana. Dal luglio 2017, l’Unione europea provvede a formazione e supporto delle autorità costiere libiche per contrastare l’immigrazione irregolare. E nel piano d’azione della Commissione europea per le migrazioni del 2020 si prevedono «finanziamenti esterni per affrontare le sfide migratorie» al fine, tra l’altro, di «rafforzare le capacità di Tunisia, Egitto e Libia, in particolare, di sviluppare azioni mirate congiunte per prevenire le partenze irregolari».

Sarebbe ipocrita negare che ci sia una sorta di “complicità” ufficializzata rispetto alle attività più o meno legali poste in essere dagli organismi libici per fermare chi volesse partire. Ed è una forma di ipocrisia parlare della necessità di impedire le partenze, e non invece di quella di allestire una qualche forma di azione di soccorso coordinata a livello europeo – una sorta di operazione Mare Nostrum - per evitare che le persone continuino a morire in mare.

Le politiche di Piantedosi

Anche il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso con un comunicato il proprio «profondo cordoglio per le vite umane spezzate», manifestando come Meloni la necessità di «fermare le partenze» alimentate dal «miraggio illusorio di una vita migliore». Al ministro sembra sfuggire che, in assenza di vie di immigrazione legale, il bisogno di fuggire dal proprio paese per aspirare a condizioni di vita migliori per sé e per la propria famiglia viene comunque perseguito attraverso altre vie; e che l’Italia non prevede forme di entrata regolare, salvo qualche migliaio di migranti che, a seguito di un lungo iter burocratico, possono entrare attraverso il cosiddetto decreto flussi.

Detto questo, nel mentre esprime dolore per i morti nel naufragio, Piantedosi pare non tenere in considerazione il fatto che le sue politiche non tutelano la vita in mare come servirebbe, e non solo per un principio di umanità, ma per espressa previsione delle convenzioni internazionali. Appena insediatosi al Viminale, il ministro vietò a due navi di organizzazioni non governative (ong), che avevano effettuato il salvataggio di migranti, di entrare nelle acque territoriali. Ciò nel presupposto che certi interventi da parte di imbarcazioni private non siano mere operazioni di salvataggio, ma possano costituire favoreggiamento di immigrazione irregolare, cioè un preventivato e intenzionale trasporto di migranti per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale. Abbiamo più volte sottolineato come questa “presunzione di colpevolezza” sollevi molti dubbi in punto di diritto.

Poi il ministro ha proseguito con un decreto che consentiva solo sbarchi selettivi, cioè di persone fragili. Il tribunale di Catania ha ritenuto illegittimo tale decreto poiché in violazione dell’obbligo previsto da convenzioni internazionali di far sbarcare tutti i naufraghi, sollecitamente e senza distinzioni. Piantedosi è successivamente passato alla pratica di assegnare alle navi di soccorso un porto di sbarco lontano. Pratica che lo stesso tribunale di Catania ha indirettamente criticato, escludendo la legittimità di una prolungata permanenza a bordo delle persone recuperate in mare in situazioni di pericolo. L’assegnazione di un porto di sbarco distante molte miglia di navigazione è stata stigmatizzata, peraltro, anche dal Consiglio d’Europa, che ha sottolineato come essa prolunghi la sofferenza dei migranti, ritardandone la discesa a terra, aggravando il loro stato di salute spesso già compromesso ed esponendoli ai potenziali pericoli delle avverse condizioni meteo. Piantedosi, peraltro, potrebbe soddisfare l’esigenza di ridistribuzione dei migranti sul territorio nazionale anche dopo lo sbarco.

Il ministro ha continuato la sua opera attraverso il decreto sulle navi delle ong (d.l. n. 1/2023). La disciplina prevede, tra le altre cose, che dopo la prima operazione di soccorso le navi debbano raggiungere senza ritardo il porto indicato dall’autorità competente, non potendo procedere a salvataggi multipli. È palese l’intento di ostacolare le attività delle imbarcazioni delle ong, costringendole dopo il primo intervento ad abbandonare al loro destino ulteriori natanti in difficoltà, salvo specifica autorizzazione dell’autorità. Ciò è in palese violazione del diritto internazionale: tutte le persone in mare devono essere salvate senza ritardo.

È inutile continuare a ripetere, come fa Piantedosi, insieme ad altri esponenti di governo, che non si può entrare in Italia senza permesso di soggiorno, quasi a voler giustificare le proprie azioni nei riguardi delle navi di soccorso. Sia il Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998, art. 10-ter) sia il Regolamento di Dublino (art. 13) prevedono proprio il caso di entrata irregolare, disciplinando le procedure da seguire anche ai fini dell’esame della domanda di asilo, che devono svolgersi necessariamente a terra.

Detto tutto questo, appare palese quanto ipocrita suoni oggi il cordoglio per la perdita di vite umane da parte di chi vuole fermare le partenze attraverso politiche e norme che non tutelano la vita umana.

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