La Corte di Giustizia dell’Unione europea (CgUe) ha deciso che «le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente». Non è stata una sentenza inattesa, considerato che anni fa la Corte si era già espressa in questo senso, e anche i giudici italiani avevano ribadito l’orientamento. Può essere utile ripercorrere la vicenda normativa e giudiziaria, per capire la portata e le conseguenze della recente pronuncia.

La direttiva Bolkestein

Nel 2006, dopo la direttiva Bolkestein relativa al libero mercato dei servizi in ambito europeo, le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali avrebbero dovuto essere messe a gara. Nel 2008 la Commissione europea avviò una prima procedura d’infrazione contro l’Italia, che solo nel 2010 recepì la direttiva, impegnandosi a riordinare il settore e, nel mentre, dispose una proroga delle concessioni stesse. La procedura d’infrazione fu archiviata nel 2012. Nel 2015 intervenne una proroga ulteriore.

Nel 2016, la CgUe stabilì che la proroga automatica delle concessioni marittime, «in assenza di qualsiasi procedura di selezione», era in contrasto con la Bolkestein. Ciò nonostante, l’Italia non applicò la direttiva, disponendo un’ulteriore proroga nel 2018 fino al 2033. Nel dicembre del 2020, la Commissione europea avviò una nuova procedura di infrazione.

Nel novembre del 2021, il Consiglio di stato (Cds), in adunanza plenaria, con due sentenze gemelle decise che la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative fosse in contrasto con il diritto dell’Ue e che le norme nazionali che la dispongono, e che in futuro dovessero ancora disporla, andassero considerate «tamquam non esset», cioè come se non esistessero, e quindi fossero disapplicate sia dai giudici sia da organi amministrativi. Tuttavia, al fine di «evitare il significativo impatto socio-economico» di una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, il Cds stabilì che esse restassero efficaci sino al 31 dicembre 2023 e che, oltre tale data, «anche in assenza di una disciplina legislativa», cessassero di produrre effetti.

Il termine fissato dal Cds è stato recepito nella legge annuale sulla concorrenza nell’agosto scorso, con cui il governo Draghi ha prorogato le concessioni al 31 dicembre 2023, prevedendo tuttavia che tale termine possa essere derogato con atto motivato non oltre il 31 dicembre 2024, se la conclusione della procedura selettiva sia impedita da «ragioni oggettive».

Ma con alcuni emendamenti al decreto Milleproroghe di fine anno, il governo di Giorgia Meloni –  in contrasto rispetto alle determinazioni del Cds – ha deciso un'ulteriore proroga fino al 31 dicembre 2024, data che può slittare fino al 31 dicembre 2025 per le difficoltà oggettive già previste dal governo Draghi. È stata altresì disposta la mappatura delle concessioni, l’emanazione di decreti attuativi e l’impossibilità dei comuni di fare nuovi bandi fino prima del decreto contenente i principi delle gare.

La nuova proroga ha accresciuto «l’incertezza del quadro normativo», come affermato anche dal Quirinale in una nota. Incertezza accentuata dal fatto che, secondo le citate pronunce del Cds, le norme nazionali che disponessero eventuali proroghe dovrebbero essere disapplicate da giudici e organi amministrativi, come detto, e ciò potrebbe determinare l’avvio di contenziosi, come quello che ha determinato la recente pronuncia della CgUe.

La Corte di giustizia Ue

La pronuncia della CgUe trae origine da una vicenda esaminata dal Tar Lecce, a seguito del ricorso proposto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) avverso una delibera comunale del dicembre 2020 con cui l’amministrazione comunale di Ginosa aveva prorogato delle concessioni balneari sulla base della normativa nazionale.

L’Agcm, in un parere, aveva rilevato l’illegittimità di tale delibera, affermando che la normativa nazionale di proroga è in contrasto con la direttiva Bolkestein, e che pertanto ne discendeva l’obbligo di disapplicazione da parte di tutti gli organi dello stato, come disposto anche dal Cds. Dato che l’amministrazione insisteva con la proroga, l’Agcm aveva presentato un ricorso al Tar Puglia per l’annullamento della relativa delibera.

Il Tar, pur ritenendo le disposizioni nazionali incompatibili con la direttiva, espresse dubbi – tra l’altro – sul carattere autoapplicativo (self-executing) della direttiva e sull’esclusione delle norme nazionali difformi, dissentendo così dall’orientamento del Cds. Di conseguenza il Tar sollevò dinanzi alla CgUe varie questioni pregiudiziali dirette a verificare l’ambito di applicazione, la validità, la natura e gli effetti della direttiva.

La decisione

Il 20 aprile scorso la CgUe – nell’affrontare e dirimere le questioni poste dal Tar – ha, tra le altre cose, ribadito «l’obbligo, per gli stati membri, di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente» nell’assegnazione delle concessioni ai candidati potenziali, nonché il divieto di procedere al rinnovo automatico. 

La Corte stessa spiega il significato e le conseguenze della propria decisione. «Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione». Poi spetta al giudice nazionale risolvere la causa «conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile».

Secondo la CgUe le disposizioni della direttiva Bolkestein sono enunciate «in modo incondizionato e sufficientemente preciso», quindi essa può considerarsi self-executing. E «poiché tali disposizioni sono produttive di effetti diretti, i giudici nazionali e le autorità amministrative, comprese quelle comunali, sono tenuti ad applicarle, e altresì a disapplicare le norme di diritto nazionale non conformi alle stesse».

Gli effetti della pronuncia

Ora il governo dovrebbe rivedere le norme con cui ha disposto la proroga delle concessioni. Tuttavia, nelle prime dichiarazioni a commento della sentenza, esponenti dell’esecutivo insistono con la necessità della mappatura delle spiagge prima di qualunque gara. Evidentemente l’intento è quello di dimostrare che non si tratta di un bene scarso, per arrivare in qualche modo a “neutralizzare” l’applicazione della Bolkestein, che trova il proprio presupposto proprio nella «scarsità delle risorse naturali» e nel conseguente numero limitato delle concessioni relative a tali risorse.
 

Il governo ha forse intravisto uno spiraglio nella parte della sentenza ove la Corte dice che la valutazione della scarsità del bene può essere condotta su base nazionale o privilegiando «un approccio caso per caso, che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune», oppure combinando tali due approcci. Ma va anche considerato l’ulteriore passaggio ove la Corte afferma che, anche se la direttiva lascia agli stati membri «un certo margine di discrezionalità», resta comunque a carico degli stessi «un obbligo di risultato preciso e assolutamente incondizionato»; e che, in ogni caso, è necessario che i criteri adottati da uno Stato «per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili si basino su criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati». Quindi, non ci sono margini per forzature.

Si ha l’impressione che, ancora una volta, il governo voglia ricorrere a pratiche dilatorie, anziché adeguarsi alle norme europee e alle decisioni dei giudici. Non va dimenticato che l’Italia ha a carico una procedura di infrazione e che, se non si conformerà alla Bolkestein, nonostante i richiami della Commissione, tale procedura potrà sfociare in sanzioni pecuniarie. Non resta che attendere le prossime mosse.

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