Le dimissioni del consigliere diplomatico, Francesco Maria Talò, sono arrivate in tempo per la conferenza stampa post consiglio dei ministri. La premier Giorgia Meloni ha potuto annunciarle rispondendo alla prevedibilissima domanda sullo scherzo telefonico dei due comici russi, che ha oscurato la presentazione della «madre di tutte le riforme» sul premierato.

Così, palazzo Chigi punta a chiudere la vicenda che ha messo in imbarazzo Meloni, fatto emergere la superficialità del suo staff ma soprattutto falle che mettono a rischio la sicurezza nazionale.

«Il mio consigliere diplomatico Francesco Talò ha rassegnato questa mattina le sue dimissioni, lo voglio ringraziare per questo gesto di responsabilità di una persona che ha lavorato tantissimo. Di queste telefonate ne abbiamo fatte almeno 80 e mi dispiace che in questo inciampo sia messo in discussione ciò che è stato fatto», sono state le parole della premier, sottintendendo ciò che si intuiva sin dai primi momenti in cui la vicenda è stata resa nota: le responsabilità di Talò sono quelle oggettive di chi guida un ufficio, ma materialmente non è lui l’artefice del disastro.

Dentro l’ufficio, infatti, la principale indiziata della leggerezza è la consigliera d’ambasciata Lucia Pasqualini, che nell’ufficio sovrintendeva ai rapporti con il continente africano. Accanto a lei, l’altro nome che ritorna è quello della potentissima segretaria particolare di Meloni, la potente Patrizia Scurti che ormai da anni è l’ombra della premier e che avrebbe avuto un ruolo nella gestione della telefonata.

Un pasticcio con più responsabili, dunque, per cui pagherà colui che formalmente aveva la responsabilità apicale e che è convenientemente vicinissimo alla pensione, anticipata così di qualche mese. Nel suo futuro sembrava già scritta la nomina al vertice dell’Ispi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, dopo la conclusione del mandato cominciato nel 2017 dell'ambasciatore Giampiero Massolo. Questo inciampo, però, bisognerà vedere se l’assemblea dei soci lo nominerà.

Le ammissioni

Meloni ha ammesso che la vicenda «non è stata gestita bene» e «ne siamo tutti dispiaciuti», poi ha allontanato da sè ogni colpa: «Se una telefonata viene passata dall'ufficio diplomatico di Palazzo Chigi tendenzialmente la devo dare per buona», ha detto, confermando poi solo parzialmente quanto detto dal suo sottosegretario, Alfredo Mantovano. Secondo lui, Meloni aveva capito «subito» che la telefonata era un fake. La premier invece ha detto di aver avuto «un dubbio verso la fine della telefonata», «l'ho segnalato al mio ufficio diplomatico e credo che lì ci sia stata una superficialità» nel non effettuare controlli.

In ogni caso, la catena di errori è cominciata con la filiera che ha gestito i contatti con il sedicente diplomatico africano ed è proseguita anche dopo la conclusione della telefonata.

Se davvero Meloni aveva avuto dubbi sul suo interlocutore, soprattutto per la parte di telefonata «in cui sui è parlato del nazionalismo ucraino che è un tema tipico della propaganda russa», allora i controlli avrebbero dovuto essere attivati subito.

In realtà, fonti dell’intelligence nutrono qualche dubbio anche su questo: Meloni, anche dopo aver intuito che poteva trattarsi di un falso, non avrebbe subito collegato il contenuto della conversazione all’ipotesi che si trattasse di una truffa di matrice russa. Leggerezza ex ante e superficialità ex post, quindi.

Così si spiegherebbe anche il fatto che siano passati 44 giorni tra la telefonata e la sua pubblicazione, senza che nessuno si sia mosso nel mentre per chiarire i contorni del pasticcio e imbastire una strategia di contenimento del danno.

Salvo il cerchio magico

Questo ennesimo inciampo del governo su questioni istituzionali e di sicurezza nazionale è solo l’ultimo di una serie di errori, tutti con un comune denominatore: una classe politica e uno staff non all’altezza del ruolo, che però gode della protezione di Meloni perchè scelti in quota “fedelissimi”.

É stato così per il duo Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, amici della prima ora della premier e incappati nella divulgazione di informazioni coperte dal segreto amministrativo sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito.

Lo stesso è avvenuto anche dentro lo staff di palazzo Chigi, dove il giornalista Mario Sechi – scelto per istituzionalizzare la comunicazione della premier – è stato rigettato dall’inner circle guidato da Scurti e dopo pochi mesi senza essere riuscito ad imprimere un cambio di rotta ha lasciato l’incarico.

Anche in questo caso, il sacrificio di Talò ha chiuso ad ogni ulteriore approfondimento sulle responsabilità interne all’ufficio. La consigliera Pasqualini che dovrebbe aver gestito in via diretta la telefonata per ragioni di competenza sull’Africa, infatti, è considerata in ascesa all’interno del corpo diplomatico e in particolare sarebbe gradita al centrodestra.

Alla presidenza del Consiglio, dove è alla prima esperienza di governo, ha trovato i suoi due mentori – conosciuti nelle sue esperienze professionali a New York e in Cina – Talò e Luca Ferrari. La sua vicinanza all’esecutivo ha anche ragioni di famiglia: il marito, infatti, si chiama Clemente Contestabile ed è il consigliere diplomatico di Gennaro Sangiuliano, il ministro della Cultura in quota Fratelli d’Italia.

Il caso delle telefonata fake dei russi in odore di servizi segreti legati al Cremlino, però, è un errore di livello diverso dai precedenti, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Per questo ha provocato incredulità prima e rabbia poi sia alla Farnesina che nell’intelligence, entrambe tenute all’oscuro dei fatti.

Ora la misura è colma. La sindrome da accerchiamento della premier l’ha portata a blindarsi a palazzo Chigi e a farsi guidare solo da logiche di fedeltà, tagliando fuori istituzioni e colleghi in cui non ripone piena fiducia. Ma ora ha superato il livello accettabile, secondo fonti di maggioranza, e qualcosa dovrà cambiare.

 

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