Domanda: che un tribunale possa sospendere le delibere assunte da una organizzazione rappresentata nelle istituzioni azzerandone il vertice è sintomo di una spregiudicatezza dei giudici o di una debolezza della politica? Direi che sono vere entrambe le cose.

Piero Ignazi, nel suo editoriale di ieri, ha spiegato la stortura rappresentata dalla decapitazione giudiziaria della leadership di un partito. Quanto alla seconda è difficile negare come all’origine del problema vi sia una fragilità nel processo di selezione di una classe dirigente.

Ora, che il tema investa il Movimento 5 stelle è un dato, ma la questione interroga l’intero sistema politico per cui converrà distinguere tra due piani. Uno investe la guida di Giuseppe Conte, il conflitto in seno al Movimento e, dopo un quindicennio di lotta e di governo, la scommessa per quella forza di darsi una struttura solida e trasparente nelle decisioni.

Sul punto non ho titolo per dare consigli, ma potendo farlo suggerirei a capi, iscritti e militanti di lasciar perdere i ricorsi per concentrarsi su cosa sia e come debba vivere un partito (pardon, un Movimento). Ne trarrebbero beneficio loro e, tutto sommato, la qualità della politica alla ricerca di una legittimazione dal basso.

Perché, comunque la si pensi, quella non discenderà mai dalla sentenza di un tribunale, sarà il risultato di una leale, pubblica, battaglia politica fondata su programmi, alleanze, idee. Nei partiti si usa chiamarli congressi, tendono a svolgersi nel rispetto di regole statutarie e di solito fanno bene. 

L’alternativa alla destra

L’altro piano della vicenda investe le conseguenze dello scontro in atto sull’azione del governo e sulla costruzione del campo decisivo per una alternativa alla destra. Qui le ragioni di metodo fanno spazio a questioni di sostanza.

Se stiamo ai sondaggi il Movimento di Conte, Luigi Di Maio e Beppe Grillo conta ancora su un bacino di consensi tutt’altro che misero. Che sia il 14 o il 16 per cento parliamo della quarta forza politica, tuttora la prima per numeri in parlamento e, caso unico da inizio legislatura, la sola rimasta saldamente al governo.

Significa prima, durante e dopo la pandemia, seppure con tre formule distinte: gialloverdi, giallorossi, giallo-arcobaleno. Ora, i partiti (o movimenti) possono collassare per ragioni molteplici, tra le più frequenti l’esaurirsi della funzione svolta nel contesto storico che li aveva generati, oppure a causa di una perdita verticale di consensi, o ancora per lo scindersi dei gruppi dirigenti con l’incapacità di produrre una nuova strategia.

Per dire, due grandi culture politiche del passato, quella comunista e democristiana, rientrano nella prima categoria. Diverso il destino dei socialisti più prossimi alla terza variante col corredo dell’azione della magistratura. Quanto alla fioritura di sigle collocate al “centro” si sono rivelate spesso meteore orfane della percentuale minima di voti che ne giustificasse l’esistenza.

Cane o lupo?

Il nodo è che la parabola del Movimento 5 stelle non si adatta a nessuna delle tre ipotesi, o meglio attinge a ciascuna di esse nel senso che il contesto attuale non ha esaurito l’onda anti politica del “vaffa”, ma non è più quel movimento in condizione di intercettarla.

Rispetto al 2018 hanno dimezzato i voti, ciò non toglie siano una forza decisiva negli equilibri di governo. Infine, la sfida per il comando è lanciata da tempo, però nulla lascia immaginare che possa condurre a una implosione a breve.

E allora? Allora toccherebbe a quanti hanno a cuore le sorti del centrosinistra dare una mano nel senso di ancorare quella realtà al solo campo che potrà competere con una destra scossa dal pasticcio quirinalizio, ma che al momento buono sotterrerà i rancori per capitalizzare il consenso.

Anni fa era stato Norberto Bobbio a sferzare la sinistra spiegando che non le serviva discutere del suo destino se non chiariva la propria natura. «Discutano la loro natura e avranno chiaro il loro destino» aveva detto. I Cinque stelle sono dinanzi al medesimo bivio. Non potranno rimanere al governo per sempre, ma se una chance di tornarci dopo le prossime elezioni ancora ce l’hanno è il momento che dicano per primi a sé stessi “al governo con chi e per fare che cosa?”.

La mia opinione è che guardare a sinistra pensando al paese più che un’opzione rappresenti per loro l’opportunità di fare finalmente luce sulla propria natura. Fosse solo perché come insegna Balto, puoi essere cane o lupo, ma ci sono momenti dove tocca scegliere quale vita vivere.   

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