«Monti, Bersani, Berlusconi all’indomani del voto si rivolsero a Napolitano e gli dissero: non siamo in grado di eleggere un presidente della Repubblica». Umberto Ranieri, già parlamentare, sottosegretario agli esteri nei governi Amato e D’Alema, ma soprattutto migliorista napoletano, compagno di corrente di «Giorgio», come lo chiama, e suo amico di sempre, ricostruisce quell’aprile 2013 dell’unica rielezione al Colle. Ma non crede la storia si possa ripetere.

Come oggi Mattarella, anche Napolitano diceva che non avrebbe mai accettato il bis del suo incarico.

Napolitano non intendeva nemmeno discutere con chi gli rivolgeva la domanda, era convinto che sette anni fosse un periodo di tempo lungo. E quei sette sono stati anni complessi, gli anni della crisi economica, delle decisioni difficili. Ma la verità è che il risultato del voto del 2013, l’impossibilità di delineare una prospettiva di governo, il fallimento dell’elezione di Franco Marini e poi di Romano Prodi, la situazione economica difficile, resero inevitabile la rielezione. Del resto Giorgio descrisse la gravità della situazione nel suo intervento alle camere. E segnalò l’urgenza di alcune riforme. Era chiaro nel discorso che avrebbe sostenuto l’avvio delle riforme e nel più breve tempo possibile avrebbe lasciato.

Anche oggi siamo in emergenza: la pandemia, il Pnrr.

Indiscutibilmente oggi abbiamo a che fare con il rischio di una nuova ondata di Covid, malgrado gli forzi del governo per contenerne l’aggressività. Poi c’è la grande questione a cui il governo di Draghi sta lavorando alacremente, che è mantenere gli impegni con l’Europa in vista della utilizzazione piena ed efficace delle risorse disponibili, per aprire una fase di crescita economica duratura.

Stavolta i leader pregano Draghi di restare a Palazzo Chigi.

Draghi sarebbe uno splendido presidente della Repubblica. Ma è evidente che la preoccupazione per una guida del governo, efficace e autorevole, andando Draghi al Quirinale, non è da sottovalutare. Disponiamo di una personalità in grado di reggere il governo del paese in una situazione così tormentata, con una coalizione straordinaria fatta di partiti che tradizionalmente si contrappongono? Ho dei dubbi.

I partiti dovrebbero cercare un nome per convincere Draghi a restare?

I partiti più rilevanti, non oso dire grandi partiti perché ahimé non ce ne sono più, dovrebbero convenire su un nome per la presidenza della Repubblica, che non siacontraddittorio con la maggioranza, gli sforzi e il lavoro compiuti dal governo Draghi. Però non vedo una discussione seria da quella parte.

Napolitano fu eletto con una larga maggioranza, anche con la Lega.

Napolitano fu rieletto perché Monti, Bersani, Berlusconi, cioè i leader dei tre partiti rilevanti degli equilibri del parlamento all’indomani del voto del 2013 esplicitamente si rivolsero a lui e gli dissero: noi non siamo in grado di eleggere un presidente della Repubblica, pensiamo che tu debba proseguire. Fu una drammatizzazione, ma era nelle cose.

Dovrebbero fare altrettanto oggi?

Oggi il Pd, la Lega, Forza Italia e Conte, che sembra guidare i Cinque stelle, dovrebbero parlare esplicitamente, consapevoli della gravità della situazione e della necessità di scelte che non compromettano il lavoro fatto fino ad adesso. Decidano. Trovino una sede formale per dirlo. Se ritengono che il governo senza Draghi non va avanti, si assumano la responsabilità di indicare una personalità che dal Quirinale possa fare il bene del paese.

Non devono pregare Mattarella?

Mattarella resta un protagonista della vicenda politica italiana, e con Draghi ha fatto una scelta di lungimiranza e coraggio. Ma sto a quello che ha dichiarato, ritiene impraticabile il reincarico. Anche perché credo che il presidente della Repubblica non voglia offrire coperture alla incapacità dei partiti.

Era quello che aveva fatto anche Napolitano?

Ogni storia ha un suo profilo. Se cambia idea, e la situazione lo conduce a farlo, Mattarella darebbe il massimo delle garanzie. Ma la differenza con il 2013 è che qui i partiti chiederebbero di lasciare tutto com’è al Colle e a Palazzo Chigi.

Prima del bis di Napolitano ci sono due drammi politici, la bocciatura di Marini e Prodi.

Napolitano guardò con disappunto, direi con dolore al modo in cui non passarono Marini e poi Prodi. Era preoccupato per il paese. C’era stata l’irruzione di una formazione politica primitiva come i Cinque stelle, la prima irruzione del populismo in parlamento. Li vedemmo all’opera nell’incontro con Bersani, in diretta streaming. Una pagina amara. Erano una formazione inaffidabile.

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Il governo Monti, con il rigore, e le riforme che non dialogavano con quel disagio popolare, non fu una delle cause del successo dei Cinque stelle?

Le politiche di austerità erano chieste dalla Commissione europea. Il governo Monti, pur in una situazione complessa e tormentata, ha contribuito a salvare l’Italia. L’Italia precipitava nell’abisso, ricorda a che punto era lo spread, il rischio del fallimento incombeva. Quelle di Monti erano misure impopolari, ma necessarie e inevitabili. Lei immagini l’Italia cosa sarebbe stata senza il governo Monti.

Forse sarebbe andata al voto un anno prima e avrebbe vinto la coalizione di Bersani?

Ricordo, e sarebbe difficile scordare, che la coalizione che si opponeva alle destre e al populismo era riassunta nella famosa foto di Vasto: il Pd, la Sel di Nichi Vendola, Di Pietro. Una coalizione striminzita che non sarebbe stata in grado né di sconfiggere la destra né di fronteggiare il populismo. Il risultato che arrivò nel 2013 lo dimostra. Perdemmo milioni di voti. La strategia politica del Pd era la ricostituzione di uno schieramento di sinistra ristretta, nulla di più. Ma ripeto, il governo Monti era inevitabile, le sue misure furono indispensabili. Certo il Pd pagò un prezzo.

Ricorda la mozione di sfiducia di Fini, rallentata di un mese, si dice anche per volere di Napolitano, che dette la possibilità a Berlusconi di riconquistare, in alcuni casi comprare, il consenso?

C’era la necessità di far votare la finanziaria, altrimenti si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio e in quella situazione così delicata dal punto di vista economico sarebbe stato un passo verso il default. Napolitano fu impeccabile, grazie alla sua determinazione fu evitato il rischio del tracollo del paese.

E il Pd dei 101 cosa sbagliò?

Da un lato bisogna riconosce che il Pd si assunse delle responsabilità enormi per reggere nell’impresa di governo e contribuire a evitare la catastrofe. Certamente era un partito con divisioni al suo interno. Ed ebbe una vicenda tormentata, perché nel volgere di poche ore passò da una posizione che avrebbe comportato, per l’elezione di Marini, un’intesa con il centrodestra, alla sua opposta con Prodi, un’operazione che avrebbe escluso il centrodestra. Due indirizzi così diversi in poche ore.

Letta potrebbe ritrovarsi in quelle condizioni?

Non credo. Il Pd oggi è più unito di allora. Letta ha l’intelligenza politica e le capacità per guidare il partito in questo passaggio delicato. Credo che debba promuovere un’iniziativa che coinvolga il massimo delle forze politiche.

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E se questo ruolo lo acciuffasse Renzi?

Renzi, leggo dalle interviste, dice che occorre eleggere il presidente della Repubblica coinvolgendo anche il centrodestra e quindi occorre adoperarsi perché questo accada. È una cosa giusta, mi pare. Serve un’intesa e una convergenza. Mi auguro che Renzi operi in questa direzione, con senso di responsabilità e spirito unitario.

E se invece desse una mano all’elezione di Berlusconi?

I rapporti di forza sono quelli che sono, il centrodestra unito dispone di un consistente pacchetto di voti. Che aspiri a promuovere una propria personalità è legittimo. Ma bisogna evitare una scelta troppo di parte. Alcune dichiarazioni recenti di Berlusconi sono apprezzabili, animate da sacrosante preoccupazioni sulle sorti del paese. Molto bene. Ma lui stesso, che è persona esperta, si rende conto che al Quirinale, in un momento così delicato, sia opportuno che vada una personalità che almeno non sia un capo politico di una parte. Faccio lo stesso discorso per Prodi, del resto: che ha tutti i titoli, ma è un capo storico della sinistra, e per due volte il capo del governo del centrosinistra.

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