Di fronte a palazzo Grazioli, residenza di Silvio Berlusconi al tempo del “bunga bunga” e del “lettone di Putin”, si soffermavano, quando il Nostro ci abitava, frotte di turisti russi, americani, cinesi, oltre a tanti italiani dal marcato accento provinciale. Tutti disposti, calura o non calura, alla fatica di deviare dalla linea dritta che conduce da Fontana di Trevi al Colosseo per osservare la finestra della camera da letto.

Era la palese controprova che al padrone di casa era riuscita l’impresa di costruire il mito di sé stesso e divenire un protagonista dell’immaginario in tutto il globo. Perché, al di là del prurito per i festini più o meno scollacciati, quelle persone erano comunque stregate dal personaggio che costringeva tutti ad amarlo oppure odiarlo. Sarà per questo che la stampa internazionale ha dedicato gran parte degli obituary, cioè dei pezzi scritti solitamente dedicati a un morto illustre, allo charme del personaggio, oltre che alle scontate note di colore.

Lo charme del personaggio

L’austero The Economist da Londra ha preso le mosse da una vicenda giovanile scrivendo testualmente: «Non fosse per i genitali delle donne del Caucaso l’intera avventura di Silvio poteva anche non decollare affatto». E ha narrato l’episodio del finanziere che – complice la sua segretaria convinta da Silvio con lo charme o qualche regalino – era salito in aereo ritrovandosi accanto al ventisettenne Berlusconi. Lì, uno champagnino dietro l’altro, era decollata una analisi profonda e dettagliata delle parti intime delle femmine caucasiche. Il clima umano su misura per guadagnare al giovane Silvio gli investimenti su Milano Due.

Il sottotesto del racconto, maligno e britannico, è evidentemente che lo sciocco e infoiato era il potente finanziere e non il cinico giovanotto che gli aveva preso le misure ottenendo quello che voleva. Perché lo charme vuole che il destinatario sia ben disposto ad accoglierlo e non solo che lo charmeur si dia da fare col cervello e con il cuore.  

La consapevolezza di questa tensione bilaterale emerge dal cenno al biografo americano cui Berlusconi disse di saper fare innamorare le persone o, viceversa, di farsi detestare. E qui subentra il New York Times, per cui il segreto della resilienza del mito Berlusconi a ogni assalto stava nell’«affascinare od offendere una varietà di audience e tipi umani rigorosamente in alternativa l’uno all’altro». Perché, ha osservato Alan Yuhas, odio e amore si reggono a vicenda, come i due semiarchi contrapposti per un ponte che quanto più si accaniscono più reggono. Ovvio che la stampa americana, alle prese a casa propria col trumpismo, sia divenuta assai sensibile al comando ottenuto arruolando le fazioni, anche se si consola vedendo un Donald Trump che eccede nella chiave del “brutale” rispetto alle arti più piacione dell’italiano, suo predecessore.

L’anarchismo all’italiana

Tutti le testate estere che abbiamo esaminato s’arrovellano sullo charme anche per chiedersi, Le Monde uno per tutti, come sia stato possibile che nonostante tante prove di «incompetenza e di indifferenza ai problemi pubblici», Berlusconi sia riuscito con quell’arma (altra spiegazione non rinvengono) a tenere stretti gli elettori per tanto tempo al suo partito, sia primeggiando nella destra sia, col declino, riuscendo a tenere comunque incollato lo schieramento alle proprie sorti e ai propri affari. Le Monde, parendogli assurdo tanto consenso inscalfibile e testardo, la butta lì e si domanda: «È una forma di latente anarchismo che fa preferire a tanti elettori (italiani ndr) una caricatura del potere rispetto alla teorica Gravità connessa al suo esercizio?»

La questione posta da Le Monde è grave, concreta e insinuante perché afferma in pratica che Berlusconi, il politico, ha fatto fortuna in mezzo a un vuoto morale e culturale. Vuoto, potremmo dire, del senso nazionale, del Risorgimento mezzo morto, del Dopoguerra di contrapposizioni fra anticomunisti e rossi vari, ridenominati in un istante come anti e pro berlusconiani.

Meno sottile, ma simile in sostanza, Die Zeit quando racconta che «Silvio Berlusconi è entrato in politica per proteggere sé stesso e il suo impero aziendale». E aggiunge: «Una carriera politica sconosciuta in Europa». Come a dire che queste cose accadono solo in Italia, che non è una nazione per davvero.

L’attenzione e preoccupazione altrui sull’efficacia dello stregone in un paese anarchico, cinico e disposto ad atteggiarsi da stregato, non manca di fondamento e trova un riscontro nella circostanza che solo la sinistra democratico cristiana, che lasciò in massa l’aula  per non votare la legge che regalava allo stregone tre canali, a quello charme non abbia mai ceduto. Grazie non alla connotazione di sinistra ma al quid identitario «comunitario e aggregativo» ostile a chi comanda dividendo le greggi e i pastori. Sta di fatto che, se questi sono i nodi, un paese anarchico e sensibile allo charme, è inaffidabile e condannato a ranghi di secondo piano. 

Al di là di questi nodi che, a ben vedere, più che di Berlusconi parlano di noi, non c’è testata al mondo che non ricostruisca minutamente le peripezie giudiziarie e gli svaghi sessuali di Berlusconi. Perché, come traspariva dagli sguardi di chi veniva a Roma a rimirare il suo palazzo, le imprese e le medaglie che lo hanno reso una collezione di maschere globali che tutti si trovano a incontrare in famiglia o sul lavoro secondo varie definizioni popolari (lo spietato uomo d’affari, il furbastro, l’uomo tutto pantaloni, il freddurista impenitente) saranno sue per sempre. A noi restano i problemi.

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