Le autocandidature per le parlamentarie Cinque stelle si sono appena chiuse e hanno già fornito la prova tangibile di come, dopo quattro anni, sia cambiata la percezione del Movimento tra i propri simpatizzanti ed elettori.

Le candidature presentate sono state appena 2.000 contro le 15mila del 2018: la ragione non è solo la disaffezione crescente nei confronti del M5s, testimoniata anche dai sondaggi in forte calo, ma anche la sfiducia nei confronti del leader Giuseppe Conte.

Sono tanti i parlamentari che, pur avendo la possibilità di correre per un secondo mandato, hanno deciso di non partecipare alle parlamentarie o addirittura hanno lasciato il partito. Gli ultimi sono Sabrina De Carlo, capogruppo in commissione Esteri alla Camera, e Gabriele Lorenzoni, entrambi al primo mandato. Stesso discorso anche per Francesca Galizia, vicepresidente del gruppo alla Camera e Nicola Provenza, anche lui membro del direttivo del gruppo.

Timori

Molte di queste scelte sono motivate da una ragione che in pochi esprimono apertamente, cioè la certezza che alla fine l’ultima parola su chi farà il capolista nei collegi plurinominali è di Conte. E con i sondaggi che ormai danno il Movimento sotto il 10 per cento, chi occuperà i posti più bassi in lista non avrà alcuna possibilità di entrare in parlamento. Figurarsi poi gli uninominali: per i sondaggisti è praticamente impossibile che i Cinque stelle riescano a vincerne qualcuno.

Di conseguenza, partecipare alle parlamentarie è uno spreco di tempo. «Tanto, prima del voto degli iscritti in programma per il 16 agosto o nei giorni successivi, sarà Conte a decidere chi mettere nelle posizioni migliori», riassume il ragionamento un parlamentare.

Nuove regole?

Il sospetto dei parlamentari uscenti è che il presidente del M5s non sceglierà per merito. Per garantire la rielezione dei suoi fedelissimi dovrà anche rinnegare i princìpi fondanti del M5s come la territorialità e il no alle pluricandidature.

Per esempio l’ex sindaca Chiara Appendino, obbedendo al principio di territorialità si è candidata a Torino, un collegio difficilissimo per il Movimento. Stesso discorso per il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, che dovrebbe correre a Trieste, dove i Cinque stelle rischiano di fare una pessima figura. Può Conte permettersi di non fornire loro un “paracadute” garantendogli di fatto l’elezione?

Da qui la necessità di candidarli anche in collegi diversi da quelli di appartenenza o, addirittura, in più di uno. Farlo, però, significherebbe derogare, per l’ennesima volta, alle regole, un tempo rigidissime, del Movimento. «L’avessero proposto qualche anno fa, sarebbe scoppiato il finimondo», sintetizza l’evoluzione un deputato che ha lasciato il M5s.

Quella della composizione delle liste diventa così l’ultima delle manovre accentratrici di Conte, ormai diventato il dominus indiscusso del Movimento, soprattutto dopo gli addii degli ultimi oppositori interni.

La prima era stata la definizione del nuovo statuto, scritto dall’avvocato del popolo in persona un anno fa, che affidava a lui ogni decisione. All’epoca Beppe Grillo lo aveva accusato di aver realizzato uno statuto seicentesco incentrato su di sé. L’ex premier aveva ribattuto che il garante non avrebbe dovuto più atteggiarsi a padre-padrone. Ma con la progressiva uscita di scena del fondatore il padrone dei Cinque stelle è diventato proprio Conte.

Tanti eletti nei mesi scorsi hanno denunciato l’inaccessibilità del leader, protetto dai suoi fedelissimi. Il Movimento si è trasformato sempre di più in un partito con gerarchie stabili: cinque vicepresidenti (di cui quattro a cui va trovato un seggio sicuro) e una miriade di coordinatori regionali e tematici. Tutte nomine decise da Conte che, secondo molti, sono state utilizzate come moneta di scambio per assicurarsi la fedeltà dei parlamentari.

Relegati a un ruolo più che marginale gli attivisti, convocati al voto solo per avallare modifiche già decise, come l’adesione al governo Draghi o le modifiche statutarie necessarie per accedere al 2 per mille, un’altra delle regole di Grillo annullate dall’ex premier.

L’ultima consultazione, alla fine mai arrivata, doveva essere addirittura sulla deroga al vincolo dei due mandati, la norma aurea dei grillini fin dalla loro nascita. A impedire la definitiva deriva verso il partito personalistico è stato Grillo. Difficile che riesca a imporsi anche sulle parlamentarie.

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