«Ho fatto il primo action movie della mia vita», raccontava l'altra sera Fabrizio Gifuni al festival MoliseCinema presentando il film del regista romano trentenne Ludovico Di Martino La Belva, in cui interpreta un ex militare che soffre di disturbo post-traumatico.

«Arrivato a questa età, dopo tante parti borghesi, sentivo l’esigenza di un ruolo diverso. Nella finzione, volevo finalmente menare qualcuno», ha raccontato l'attore nella piazza del centro del paese molisano di 1.800 abitanti che da venti anni ospita la manifestazione e che si chiama, per caso, Casacalenda, ma tutto attaccato. «Ho eliminato gli zuccheri dalla alimentazione, serviva anche ad accumulare una maggiore aggressività. Ero contrario soltanto al titolo. Temevo che Fabrizio Gifuni in La Belva potesse suonare comico». E invece ha funzionato.

Il film d’azione

Il 20 agosto Enrico Letta compirà 56 anni e come il suo coetaneo Gifuni, che li ha raggiunti il 16 luglio, è chiamato a una parte da protagonista del primo film d'azione della sua vita. Un po' per scelta, non è mai arrivato a una campagna elettorale nazionale da segretario di partito, senza padri nobili, maestri ingombranti, fratelli maggiori cui fare da numero due. E molto per necessità: dopo il fragoroso vaffa-day di Carlo Calenda che ha chiuso l'alleanza con il Pd in diretta tv, ieri pomeriggio nello studio di Lucia Annunziata, Letta dovrà prepararsi a recitare un copione per lui inedito. Fare una dieta chetogenica. Perdere scorie. Trasformarsi da disciplinato vigile urbano del centrosinistra, che registra gli sbandamenti altrui, con i richiami all'unità e al buonsenso, a combattente che si gioca tutto il 25 settembre.

Altro che occhi di tigre, Enrico Letta in La Belva, l'effetto ridicolo sembra assicurato. Eppure il Letta Mannaro non ha alternative. Dovrà menare qualcuno. Per ora hanno menato lui.

Letta mannaro

Il congresso del Pd è cominciato ieri e gli avversari interni del segretario, oggi tutti taciturni in attesa della spartizione dei collegi, cominciano già a tenere l'elenco degli errori, per il dopo-voto.

Un anno e mezzo di corteggiamento di Giuseppe Conte è finito come si sa. Il triste accordo con Calenda, ribattezzato Bad Godesberg con fervore improvvido sul giornale che fu di Eugenio Scalfari, è affondato in un pugno di ore, con recriminazioni di onore tradito che rivelano la mal sopportazione reciproca di maschi egotici.

Negli ultimi giorni Letta ha provato a costruire un'intesa elettorale degna dell'Ulivo 1996, svolgendo la funzione che ebbe all'epoca Massimo D'Alema e non Romano Prodi, come ha ricordato in questi giorni Arturo Parisi. Prodi era il punto di riferimento di tutti senza avere un partito, D'Alema da segretario del partito principale della coalizione costruì la modalità di schierarsi delle liste. Nel 1996 il centrosinistra si presentò con tre cerchi: il gruppo ristretto dell'alleanza di governo, l'Ulivo vero e proprio, con il Pds, i popolari e i verdi, la lista Dini in coalizione ma fuori dall'Ulivo, Rifondazione comunista in desistenza (nei collegi uninominali dove c'era il candidato di Fausto Bertinotti non c'era quello del centrosinistra di governo, e viceversa). A completare l'opera c'era la divisione della destra, la Lega di Umberto Bossi andò da sola, e il centrosinistra vinse.

A Letta toccava l'edificazione di un'architettura ancora più barocca, garantendo a Calenda un programma di governo, alla sinistra rossoverde un accordo tecnico nei collegi «in difesa della Costituzione», a Luigi Di Maio un diritto di tribuna nelle liste del Pd. Ma l'impresa gli è crollata addosso. Letta non è riuscito a tenere insieme ciò che insieme non poteva stare. Calenda stringeva mani, ma sabato ha silenziato il tweet e si è rinchiuso in un cupo silenzio, era impegnato a limare il punteruolo che avrebbe conficcato nel cuore dell'alleanza. L'obiettivo era una coalizione unita contro le destre, il fallimento strategico è ora completo e si aggiunge al doppio voltafaccia di Conte, che nei due momenti-chiave, l'elezione del presidente della Repubblica e il voto sul governo Draghi, ha abbandonato il Pd.

La Bad Godesberg si è capovolta in un disastro. Le destre hanno vinto virtualmente vinto le elezioni, a dirlo è stato ieri il capo della segreteria del Pd Marco Meloni che ha accusato Calenda di aver consegnato il Paese agli amici di Putin e di Orban.

Letta capo della coalizione ha perso la missione, ognuno va per sé. Resta Letta capo del partito, è tutto un altro gioco. Allacciare le cinture, fare una campagna allo spasimo per uscire la notte del 25 settembre come primo partito italiano. E poi sperare che succeda al centrodestra dopo il 25 settembre quello che al centrosinistra è successo prima. La dissoluzione.

Sogno maggioritario

Per decenni, in un'altra stagione, Letta ha sognato il Pd come partito centrale del sistema politico italiano. Nel 1992-93, la fine della Repubblica dei partiti coglie Letta come giovanissimo assistente di Beniamino Andreatta al ministero degli Esteri. Nel 1997 il primo salto, ha 31 anni, porta il maglione rosso e pesanti occhiali, la prima prova da dirigente di partito è in un istituto religioso alle spalle di piazza Navona, quando guida la riunione notturna dei delegati del congresso che spingono Pierluigi Castagnetti alla segreteria del Ppi. Vince Franco Marini, ma lui diventa vice-segretario in quota minoranza insieme a Dario Franceschini con cui ha sempre fatto tandem, e poi, un anno e mezzo dopo, per la prima volta ministro, alle Politiche comunitarie, con D'Alema premier sulle macerie del governo Prodi.

Nelle foto di gruppo di quegli anni, gli anni del centrosinistra di governo e di opposizione che si dilania tra Ulivo e Unione, Ds e Margherita, riformisti e radicali, a Letta spetta sempre lo stesso posto. È il più giovane dei vecchi e il più vecchio dei giovani. Il più cattolico dei laici e il più laico dei cattolici. Il più ulivista dei partitisti e il più partitista degli ulivisti. Il più politico dei tecnici e il più tecnico dei politici...

«Se nella prossima legislatura dovessi tornare al governo», confida nel 2003, quando il centrosinistra è all'opposizione, Berlusconi comanda, lo zio Gianni governa, «vorrei farlo non come Giulio Tremonti, un tecnico senza truppe, ma come un capo politico». Lo dice all'Arel, il centro studi in piazza Sant'Andrea della Valle che ha ereditato da Andreatta, «carico di sapienza economica, di esperienza anglosassone, di spirito giovanile e innovativo», così ne parlava Aldo Moro nel memoriale scritto nel covo delle Brigate rosse nel 1978. «I ceti professionali, fauna piuttosto diffidente, subiscono una nuova attrazione verso la politica. Ecco da dove trarre leve nuove a livello europeo, in uno spirito di omogeneità e d'integrazione». Un ritratto che si addice al giovane Letta.

Il lettismo nasce in quei primi anni Duemila. Come corrente, con le sue numerose articolazioni nel partito e sul territorio e nei circuiti del potere politico, economico, accademico, l'associazione 360, i lobbysti di VeDrò che nel momento più sfortunato passano in massa con la Leopolda di Matteo Renzi, la Scuola di Politiche. Anche se interpreta la battaglia interna a modo suo.

«Inutile che mi chiedete di andarmi a schiantare. Io non credo nella competizione. In questo partito si va avanti con gli accordi», replica ai suoi sostenitori che gli chiedono di candidarsi alla segreteria del Pd dopo le dimissioni di Veltroni nel 2009. E c'è il lettismo che cerca un centrosinistra moderato, alternativo alla destra berlusconiana, ma anche alla sinistra identitaria. «Le bandiere rosse mi fanno paura. I miei genitori nel '96 avevano votato per l'Ulivo, l'anno scorso hanno votato per il Polo. Quanti sono gli italiani così?», si domanda mentre il Circo Massimo viene invaso dagli striscioni della Cgil di Sergio Cofferati, ed è il 2002. «Chi scelgo tra Craxi e Berlusconi? Non ho conosciuto nessuno dei due, non sono in grado di dare un giudizio», si astiene con Vittorio Zincone su Sette, in un'intervista con cui nel 2007, da candidato alle primarie per la segreteria del nascente Pd, elegge i vituperati anni Ottanta del popolo di sinistra a suo decennio ideale.

Nel 2009, in un libro (Costruire una cattedrale), teorizza che tra le famiglie politiche europee non ci sono solo i progressisti, ma anche i moderati, e che insieme devono stare alleati contro i populisti. E ricorda un episodio significativo: «Dovevamo organizzare la convention per lanciare l’alleanza tra il Ppi di Martinazzoli e il Patto Segni. Kohl aveva dato il suo assenso. Si cercava un altro statista internazionale. Andreatta, allora ministro degli Esteri del governo Ciampi, mi mandò da Giscard. Non fu facile, ma alla fine l’ex presidente francese disse sì. A quel punto cominciarono le perplessità interne: un capo della destra, sia pure moderata, poteva non piacere alla nostra gente. Fu con grande imbarazzo che dovetti tornare da Giscard, chiedergli scusa e avvertirlo che avevamo cambiato idea. Come se avessimo vergogna di parlare ai moderati».

Il Letta di quegli anni sogna un Pd moderato e post-ideologico. Nel momento più importante della sua carriera politica, il discorso per la fiducia nel governo da lui presieduto nel 2013, cita Andreatta, da cui «ho imparato la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni. Se in questo momento ci concentriamo sulla politica, le nostre differenze ci immobilizzeranno. Se invece ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio al paese migliorando la vita dei cittadini».

Anni non sereni

Un centrosinistra liberale, moderato, nemico degli estremismi, pragmatico. Messa così, Letta risulterebbe essere un sostenitore di Carlo Calenda, a parte il carattere. E invece si ritrova nel cuore di una battaglia politica cruciale, alla guida di una coalizione sbilanciata a sinistra e di un Pd cui tocca tutto intero il ruolo di evitare che la destra di Giorgia Meloni conquisti la posta intera. In mezzo c'è stata la perdita del governo nel 2014 ad opera di Matteo Renzi, che per Letta è il vero spartiacque esistenziale.

Non solo l'assalto a Palazzo Chigi condotto dal nuovo arrivato, il segretario fiorentino, ma anche la sostituzione alla cena al Quirinale, con cui Giorgio Napolitano, fin a quel momento suo grande protettore, molla il prediletto e si rivolge al leader rampante. Un colpo di mano che avviene con il consenso di quasi tutto il Pd e con la benedizione del presidente.

Diventare segretario del partito nel 2021, dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Pd, e dopo gli anni di insegnamento a Sciences Po, ha significato nelle intenzioni di Letta porre le condizioni perché quello scenario non potesse più ripetersi. Invece, di nuovo, la sua carriera politica è a un bivio.

Dopo anni di paragoni con Prodi, che dell'Ulivo e poi dell'Unione era il mastice, il collante, l'attaccatutto che teneva appiccicato quel che non poteva essere unito, Letta si ritrova invece a seguire le orme di Walter Veltroni, il primo segretario del Pd che nel 2008 andò da solo, o quasi, contro Berlusconi. Con Veltroni c'era Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, con Letta ci saranno i socialisti, Demos, Roberto Speranza Elly Schlein, i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e la lista di Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

Molto meno di una coalizione, troppo poco per un embrione di nuovo partito. Non ci sono alternative, perciò. La campagna elettorale è già persa nella quota uninominale, la destre possono fare il cappotto, al contrario di quanto si è detto finora per Letta e per il Pd la battaglia si sposta sulla quota proporzionale. Nella speranza che un risultato inaspettato di lista trascini anche qualche collegio, adesso dato per perso. Un Pd più alto dell'attuale 22 per cento, un Pd che cerca di conquistare un quarto dell'elettorato e il posto di primo partito italiano: da oggi è l'obiettivo del segretario del Pd.

Per sperare di raggiungerlo, però, bisogna fare tabula rasa rispetto a quanto si è visto finora. Nomi deboli e non competitivi. Candidature spartite dai capicorrente secondo logiche che premiano la mediocrità e la fedeltà e non la competitività. Una donna che ha avuto un ruolo importante in questa storia, la senatrice e ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, ha annunciato il suo ritiro dal Parlamento, molte altre donne con esperienza e intelligenza politica faticano a trovare un posto in lista, c'è sempre qualche maschio debole che le teme.

C'è ancora qualche giorno per cambiare questo assetto perdente. Finora Letta ha governato il Pd seguendo le regole degli antichi cavalieri democristiani. Le segreterie regionali, i commissari cui viene richiesta non un'adesione alla corrente del segretario, ma alla segreteria nazionale da cui discende il potere locale. E i nomi esterni, di cui le agorà avrebbero dovuto rappresentare il canale di reclutamento. Ora serve uno scatto. La lista dei Democratici e Progressisti rappresenterà davvero l'insieme delle battaglie sociali e civili che alcuni pezzi del Paese hanno combattuto in questi anni sul lavoro, l'insegnamento, l'accoglienza dei migranti? E i territori, su cui si svolge il combattimento quotidiano per evitare che prevalgano le spinte di disunità e di disgregazione?

Il secondo livello da ripensare è il progetto, ben al di là dei manifesti con gli slogan che stanno spuntando nelle città italiane. Per la prima volta da molto tempo il Pd si presenta al voto senza un'alleanza competitiva di governo, che implica un programma realistico e in grado di essere attuato in caso di vittoria. Non di un programma, o di un'agenda c'è bisogno, servono bandiere, proposta facili capaci di arrivare a quella parte di elettorato che da tempo non si sente rappresentato a sinistra e che non sarà convinto a tornare alle urne dal rituale appello a bloccare la destra sovranista. La macchina da guerra neppure gioiosa che si stava per mettere in piedi sarebbe stata per le destre un regalo, una campagna elettorale permanente, con lo spettacolo di divisione che i partiti del centrosinistra avrebbero messo in piedi tutti i giorni. La necessità di correre da soli, chiedendo voti per il proprio partito, come se la legge elettorale fosse proporzionale, impone di serrare i confini e dire prima di tutto chi sei, se riesci a dirlo.

Il terzo punto è la leadership, il leader, lui, Enrico Letta. Negli ultimi anni ha parlato del coraggio del cambiamento. Ora dovrà cambiare, rapidamente e sull'onda di un trauma, in questa campagna elettorale di guide nevrotiche e narcisiste. Il tempo delle leadership nate sugli accordi è finito. Lo attende un mese da Belva.

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