«Mio figlio è sconvolto, non ce la fa più. Chiedo alle autorità egiziane di fare qualcosa». Questo è l'appello che arriva da George Zaki, padre di Patrick, il ricercatore arrestato il 7 febbraio del 2020 all'aeroporto del Cairo mentre rientrava da Bologna.

Raggiungiamo lui e la sorella di Patrick, Marise, in videochiamata dal Cairo. Ricevere giornalisti a casa loro è rischioso, dunque la famiglia preferisce fissare un incontro online alcuni giorni dopo l'udienza che ha rinviato il processo al prossimo 7 dicembre. I loro visi sono rassegnati, stanchi e provati dal protrarsi di una vicenda giudiziaria che costringerà il giovane a restare dietro le sbarre per almeno altri due mesi.

«Non ci aspettavamo che la nuova data sarebbe stata così lontana», precisa George Zaki. «Pensavamo che il rinvio sarebbe stato di dieci o quindici giorni al massimo, come è accaduto la scorsa volta».

Da 20 mesi la paura di dire qualcosa di sbagliato, che possa danneggiare Patrick o complicarne la situazione, si mischia al dolore privato di una famiglia sopraffatta da una vicenda più grande di lei.

«Mamma e papà faticano ancora a raccontare la loro vita senza mio fratello», ammette Marise. Lei è il volto più esposto fra i parenti di Patrick e cerca di proteggere i suoi genitori centellinandone le uscite pubbliche. «Per loro questa storia è talmente dolorosa che a volte non riescono nemmeno a esprimersi».

La salute peggiora 

Anche le condizioni di salute di George sono peggiorate durante il periodo di detenzione del figlio. Lo scorso febbraio è stato ricoverato per un'infezione alle gambe. Ora sta meglio ma è innegabile che il caso giudiziario di Patrick stia pesando come un macigno su questa famiglia che, sino al giorno dell'arresto di Patrick, divideva la sua vita tra il lavoro, la chiesa della comunità cristiano copta e la passione per il calcio; in particolare lo Zamalek, squadra di punta del campionato di massima serie egiziano.

«Noi non ci aspettavamo che questa vicenda diventasse politica, non lo potevamo immaginare», dice George.

Il caso ai loro occhi non trova ancora spiegazione di fronte al faldone delle indagini tanto importante nelle dimensioni quanto scarno di prove.

«La cosa che più ci sconvolge è che noi non sappiamo veramente per quale motivo Patrick sia davvero in carcere», osserva Marise.

«Il punto è la mancanza di elementi, non riescono a presentarci alcune evidenza tangibile della colpevolezza di mio figlio», aggiunge il padre. «Non c'è nulla nelle carte e anche l'articolo sui cristiani copti è uscito solo tre settimane fa in occasione del rinvio a giudizio».

L'articolo a cui George si riferisce, una delle presunte pistole fumanti dell'accusa, è un racconto pubblicato sul sito Daraj nel 2019: la storia di un soldato copto ucciso nel Nord del Sinai e del rifiuto del suo villaggio natale di dedicargli una scuola. «Riporta solo dei fatti: come è possibile che sia usato per veicolare l'accusa di diffusione di notizie false?».

Secondo gli avvocati, tra le prove contro Patrick elencate nel suo faldone ci sono ancora i 10 post di Facebook – attribuiti a lui ma che la difesa definisce falsi – che ne hanno giustificato l'arresto. Ora quelle prove, ancora riportate nelle carte della Procura ma non citate nel processo in corso, potrebbero portare a un nuovo procedimento giudiziario per propaganda terroristica.

Una situazione che si fa sempre più complicata ed è per questo che George Zaki ribadisce il suo appello alla magistratura egiziana: «Ho ancora fiducia in loro», assicura. «Il processo si sta allungando troppo e spero che ci sia un intervento delle autorità locali per porre fine a questa vicenda».

Il ruolo dell’Italia 

Sul ruolo dell'Italia la famiglia sembra aver perso le speranze. Dopo la richiesta di conferimento della cittadinanza italiana per meriti speciali sia da parte del Senato sia da parte della Camera, l'iter non è partito, mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha recentemente affermato che la Farnesina sta lavorando per la liberazione di Patrick.

«Noi non sappiamo cosa è successo dopo l'approvazione della richiesta. Non abbiamo mai avuto notizie a riguardo. Se questo accadrà un giorno, saremo contenti e diremo grazie. Ma ci rendiamo conto che questa cosa è fuori dal nostro controllo», dice George.

E sul ruolo della grande campagna per la sua liberazione afferma: «Quello che possiamo dire è che ringraziamo tutti quelli che si stanno impegnando per la campagna, in particolare l'Università di Bologna. So che sono tutte persone che lo stanno facendo senza nessun interesse. Lo fanno solo perché vogliono bene a mio figlio».

Al termine della scorsa udienza Patrick ha detto ai suoi familiari e amici «Non preoccupatevi, io uscirò», ma stando alle parole del padre la sua forza e il suo coraggio sono messi a dura prova.

«Ha perso la pazienza. E' in carcere da più di 20 mesi, senza sapere cosa stia accadendo e cosa accadrà. E' un limbo molto difficile da gestire», dice George.

«Noi riusciamo a vederlo una volta al mese o ogni due mesi», racconta. «Dipende tutto dai permessi che arrivano di volta in volta».

Il tempo per l'intervista è finito e sia Marise che George ci tengono a mandare da parte di Patrick gli auguri ai suoi compagni di master che si sono laureati nelle scorse settimane.

«Lui tiene conto dei giorni in carcere perché non vede l'ora di tornare a Bologna», ci dice il padre. «Riprendere a studiare, finire il master e poi il dottorato. E' il suo sogno. E sai una cosa? Ormai è diventato anche il mio».

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