«Patrick resterà ancora in carcere per più di due mesi. È un tempo infinito per noi. Questo ci rende molto nervosi e onestamente non sappiamo cosa fare». Marise Zaki ha la voce triste e tremolante. Risponde al telefono mentre esce dal tribunale di Mansoura poco dopo che il giudice monocratico ha deciso di aggiornare al 7 dicembre il processo per suo fratello Patrick. Un tempo infinito per il giovane ricercatore che prima del rinvio a giudizio, avvenuto lo scorso 13 settembre, aveva già trascorso 19 mesi in carcere in custodia cautelare. E l’ennesima attesa frustrata per chi, anche dall’Italia, sperava che l’udienza potesse rappresentare una svolta nel suo caso.

L’udienza lampo

Patrick è arrivato in aula poco prima dell’una di pomeriggio. Vestiva la tuta bianca, quella che in Egitto indossano i detenuti in attesa di giudizio, e ha tenuto le manette sino all’ingresso nella gabbia degli imputati. Le delegazioni diplomatiche di Italia, Spagna e Canada sono riuscite ad assistere al processo e hanno consegnato al giudice una lettera di interessamento firmata anche dalle ambasciate di Germania e Stati Uniti.

L’udienza è durata pochissimo, giusto un paio di minuti: Patrick non ha preso la parola come la scorsa volta, limitandosi a scambiare poche battute con i suoi avvocati. Sono poi stati loro a chiedere immediatamente il rinvio della seduta.

La richiesta è stata accettata ma la data fissata dal tribunale distrugge ogni speranza, ogni strategia. Ci si aspettava che la nuova seduta venisse fissata solo dopo due settimane e, invece, prima di rivedere Patrick in aula, passeranno più di due mesi.

Secondo Hoda Nasrallah, una dei componenti del team legale, è stato lo stesso Zaki a chiedere il rinvio dell’udienza perché gli avvocati hanno avuto poco tempo a disposizione per leggere le carte della procura. La legale ha anche chiesto una copia autenticata del fascicolo per poterlo studiare in modo adeguato perché sino a ora ha potuto consultarlo solo negli uffici giudiziari. Una strategia sensata, vista la situazione, ma che non poteva prevedere la decisione del giudice monocratico di fissare la nuova udienza così tardi.

Il fascicolo e le accuse

I problemi non finiscono qui, perché l’esame del fascicolo si sta rivelando più difficile del previsto e i suoi contenuti non promettono nulla di buono.

Il 13 settembre scorso sembrava infatti che il giovane ricercatore fosse stato rinviato a giudizio solo per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione al fine di danneggiare la sicurezza e l'interesse pubblico». Da quella formula mancavano le accuse più gravi, quelle di propaganda sovversiva e terroristica. La pena massima comminata dal tribunale poteva dunque essere molto più lieve di quella prevista inizialmente: nella peggiore delle ipotesi Patrick avrebbe ricevuto una condanna a cinque anni e non a venticinque.

Purtroppo la previsione si è rivelata una chimera: venerdì scorso, dopo aver consultato il fascicolo, l’avvocato Hoda Nasrallah ha dichiarato all’Ansa che le ipotesi di reato sono tutte ancora in piedi.

Nelle carte sono citati anche i dieci post pubblicati dal giovane ricercatore sul suo profilo Facebook, anche se il processo ruota attorno a un articolo sulle minoranze cristiane in Egitto scritto da Patrick per il portale di informazione Daraj nel 2019. Quindi, tra le carte delle indagini, dice Eipr, ci sono altre prove e altre accuse non comprese nel procedimento giudiziario in corso. «Il caso di Patrick è costituito da un enorme fascicolo», spiega Lobna Darwish di Eipr. «Il processo che sta andando avanti ora esamina solo una parte di tutti i capi di accusa e delle prove. Questo significa che tutto ciò che è rimasto fuori da questo rinvio a giudizio potrebbe trasformarsi in nuovi processi con altre accuse e altre prove».

In questa situazione le speranze di vedere Patrick libero si fanno ancora più flebili.

«Le autorità egiziane adesso possono fare quello che vogliono, più che mai», continua Darwish. «Possono archiviare le accuse per cui Zaki non è ancora andato a giudizio. Oppure aggiungere un altro processo a quello che già in corso. Potrebbero rilasciarlo, certo, ma il rischio è che, di fronte ad accuse del genere, anche a piede libero resterebbe indagato o in attesa di giudizio, quindi non in grado comunque di lasciare il paese».

La trappola del tadweer

Alcune settimane fa, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi aveva annunciato una nuova strategia per i diritti umani. Il lancio dell’iniziativa era arrivato due giorni prima che Patrick venisse, a sorpresa, rinviato a giudizio. Sembrava che qualcosa si stesse muovendo ma non è stato così.

Il caso di Zaki fa parte delle decine di migliaia di arresti per reati di opinione. Tutti intrappolati in quel sistema fatto di accuse sommarie e lunghi periodi di detenzione che gli egiziani chiamano tadweer. Il suo funzionamento è molto semplice: appena un indagato in custodia cautelare sta per terminare i due anni di detenzione, viene iscritto in una nuova indagine. La stessa cosa può accadere anche a detenuti che, dopo essere stati rinviati a giudizio e condannati, stanno per terminare la pena. Così, il sistema egiziano riesce a mantenere i cittadini in carcere per un tempo indefinito e fa della detenzione arbitraria uno dei pilatri più potenti della repressione di stato.

Nel pomeriggio, subito dopo l'udienza, la famiglia e gli avvocati di Zaki sono rientrati al Cairo, dove la notizia del rinvio viene riportata dai media in maniera asciutta. Non ha il clamore e l’attenzione che riceve in Italia ma viene comunque raccontata, esiste nonostante Patrick sia uno dei tanti. 

Nell’ultima lettera che il giovane ricercatore ha dato all'avvocato Hoda Nasrallah sabato scorso, e che Domani ha pubblicato in esclusiva, Patrick chiedeva di essere riportato in piazza Maggiore. Un auspicio che si è rivelato vano. Zaki rientra nel cono d’ombra del penitenziario di Tora. Secondo le agenzie, mentre andava via dalla corte verso, Patrick avrebbe urlato ai suoi colleghi di Eipr rimasti fuori  «non preoccupatevi per me, uscirò, uscirò da qui».  E a Bologna, in quella città che lunedì ha visto la manifestazione di Amnesty International per chiedere la sua liberazione, di lui resta solo il ritratto sotto le due torri. Un disegno affisso da più di un anno e che rischia di restare esposto ancora a lungo.

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