Sarà anche in gioco «l’esistenza stessa del partito» (Gianni Cuperlo, Goffredo Bettini), c’è senz’altro il rischio del «declino» (Luigi Zanda), ma – sorpresa – il rischio di scissione nel Pd non c’è. Non stavolta, nonostante la lunga tradizione delle fuoriuscite.

Lo si capisce all’indomani della mancata partecipazione al voto sulle armi all’Ucraina da parte di due deputati di Art.1, che sono due certezze del nuovo Pd e che dopo le primarie prenderanno la tessera. Contro i due, Arturo Scotto e Nico Stumpo, mercoledì si sono sollevati i mugugni di alcuni colleghi dem, e anche qualche profezia di scissione imminente. Che hanno fatto circolare l’ipotesi che, neanche il tempo di rientrare, la Ditta starebbe già meditando una nuova fuoriuscita verso M5s.

I due naturalmente negano, e al netto di profili psichiatrici, è difficile non credergli: «Ma di cosa parliamo?», sbotta Scotto, «Abbiamo votato sabato scorso nell’assemblea costituente del nuovo Pd il Manifesto dei valori che è un passo in avanti rispetto al passato e introduce elementi di discontinuità forti sul lavoro, sul rapporto tra stato e mercato, sulla democrazia. Siamo impegnati in questo percorso: la mia posizione sulla guerra l’ho esposta in quel luogo prima ancora che in parlamento. Mi batterò perché nel corso dei prossimi mesi emerga un altro punto di vista che metta la diplomazia davanti alla logica pericolosa dell’escalation militare».

Stessa posizione da Stumpo: «Non ho mai votato questo decreto, neanche nella scorsa legislatura, e siccome l’ultimo era una fotocopia dei precedenti ho tenuto la stessa posizione. La scelta di partecipare al congresso del nuovo Pd è successiva, ed è un percorso in cui sto mettendo tutta la mia energia. Non vedo perché dovrei ripensarci. La verità è che la mia posizione, che è quella anche di tanti elettori del Pd, è la dimostrazione che un partito più largo è capace di tenere insieme idee diverse». 

Non tira aria di scissioni

La verità è che nel Pd non tira affatto aria di scissioni. Intanto ci sono le raccomandazioni unitarie che i due principali sfidanti ripetono con puntualità significativa (Stefano Bonaccini: «Se vincerò io  chiederò una mano a Elly Schlein, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo, se non sarò segretario darò una mano». Schlein: «Non vedo nessun rischio di scissione anzi, siamo qui per alimentare un confronto sulla visione e sulle idee»).

Si può non credere alle promesse precongressuali. E però i segni di quello che accadrà dopo il 26 febbraio sono già leggibili oggi. Basta sintonizzare l’orecchio sulla frequenza giusta.

Domenica scorsa, all’assemblea nazionale e poi al confronto in tv nello studio di Lucia Annunziata, è stato evidente che i candidati non si attaccavano troppo. Soprattutto Bonaccini e Schlein. Colpi soft, o secondo un’altra interpretazione passaggi al cloroformio, che rispondevano non tanto a ragioni di garbo istituzionali ma a un preciso accordo di evitare i toni ruvidi che, trasferiti giù per li rami ai fan, finiscono necessariamente per scatenare lacerazioni difficili da risanare in seguito.

La storia vera è che a questo giro è stato stretto un patto generazionale, che non affiora in chiaro ma è già praticato da quelli che si preparano ad essere i nuovi gruppi dirigenti. Un patto trasversale, principalmente fra quelli che sostengono i due candidati che arriveranno alla sfida dei gazebo. Un “idem sentire” fra i trentacinque-quarantenni di una parte e dell’altra: saranno loro a mandare a casa i capi delle vecchie correnti e a mettersi alla guida di quelle nuove, scomposte e ricomposte secondo i risultati del congresso. Saranno loro ad archiviare il vecchio «patto di sindacato» che ha governato fin qui il Pd assai più che i segretari di turno, e a sostituirlo con uno nuovo. 

Per le caselle è presto, ma qualcosa già si intravede. Piero De Luca, che partecipa delle relazioni del padre Vincenzo, presidente della Campania, sarà il «Luca Lotti» di Bonaccini; Peppe Provenzano si ritroverà ad essere il riferimento della sinistra socialista, essendo peraltro il primo di quest’area che ha scommesso su Schlein; e Michela Di Biase è già la franceschiniana più vicina alla candidata bolognese. Non a caso, a margine di un incontro romano mercoledì sera, la deputata ha spiegato: «Noi siamo la generazione che c’è, anche noi siamo un pezzo della storia del Pd, anche noi dobbiamo avere cura del suo futuro, e farcene carico». 

Toccherà a loro guidare il Pd e accompagnare a bordo campo i capicorrente attuali. E sarà questa la più solida garanzia di unità: nessuno lascerà un partito che si appresta a governare. Dalla maggioranza o dall’opposizione interna: un sondaggio di Euromedia Research, realizzato per  Porta a porta, dà Bonaccini al 54 per cento di coloro che partecipano alle primarie, e il 18,1 a Schlein (e il 7, 8 per Gianni Cuperlo e il 6,3 per Paola De Micheli).

Minuetti cortesi

Nel frattempo anche i senior lavorano alacremente all’unità post-gazebo. A partire da Enrico Letta, che è riuscito a far votare la coabitazione fra la vecchia carta dei valori, quella di epoca veltroniana, e la nuova, spennellata di parole di sinistra. Il segretario è riuscito miracolosamente a disinnescare lo scontro fra riformisti e laburisti. La preoccupazione per i toni del confronto sul nuovo testo gli avevano fatto temere il peggio. E il peggio era consegnare al successore un partito spaccato in parti irriducibili e irricucibili. «L’unità viene di prima tutto», è stato il core business del suo ultimo discorso da leader. «Dico ai candidati: parlatevi fra di voi, il futuro del partito dipende dalla vostra capacità di costruire linguaggi che vi consentano di essere diversi ma di capirvi nei momenti essenziali».

Ma il messaggio era stato già recepito da quelli che hanno i riflessi più pronti. Dopo le accuse reciproche fra presunti «anticapitalisti» e presunti «liberisti», e lo scambio di delegittimazioni, i più avvertiti hanno fiutato il pericolo di una rottura vera. E hanno cambiato i toni. Andrea Orlando, leader della sinistra interna, continua a chiedere al Pd di «sciogliere il nodo della doppia anima, quella socialista e quella liberale», ovvero fra «tutti quelli che pensano che il mercato non si regola da solo e chi pensa che serva un riequilibrio» e a spiegare che il Pd «ha provato a risolvere questa questione con l’utilizzo della leadership come una sorta di pendolo, Veltroni-Bersani, Renzi-Zingaretti. Senza che mai questo pendolo in qualche modo si fermasse». Ma la conclusione del discorso è che «se non si trova una sintesi, non c'è più il Pd». 

Serve una sintesi, insomma. Anzi, la sintesi serve ha spiegato, dal lato opposto, Enrico Morando all’assemblea dei riformisti di Libertà eguale, due settimane fa a Orvieto, di fronte a quelli che arrotavano le armi (dialettiche) contro l’ala lì definita «massimalista». «Le due posizioni», riformista e socialista, «ci sono in tutti i partiti a vocazione maggioritaria e i sostenitori dell’una e dell’altra devono praticare il fatto che senza l’avversario interno nel partito, il partito non è a vocazione maggioritaria», «Nel Pd invece fin qui i segretari vincono, e quando perdono la battaglia interna organizzano le loro truppe e se ne vanno.

Ma non puoi essere un partito a vocazione maggioritaria se non risolvi culturalmente questo nodo: si perde e si sta perché si può tornare a vincere». Dunque «queste due componenti debbono esserci tutte e due», anzi «Io, sostenitore di una posizione di sinistra liberale, debbo impegnarmi con la chiarezza delle mie posizioni, ma contemporaneamente devo desiderare che il massimalista antagonista, che propone di scrivere nella carta che c’è il superamento del capitalismo, stia del Pd». 

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