Di fronte a una destra globale, diciamo pure un’internazionale oscurantista che muove all’assalto di democrazia e diritti umani calpestati, rispondere con desistenze elettorali non basta più. Tutte e tutti dobbiamo pensare bene al cambio d’epoca che ci avvolge, qui, in Europa e nel mondo
Le interviste di Dario Franceschini non sono frequenti, anche per questo vanno lette con attenzione. Quella uscita su Repubblica merita qualche cura in più perché delinea una rotta del Pd che in buona misura discute la strategia seguita sinora.
In sintesi, l’ex ministro della cultura archivia l’Ulivo e le suggestioni di una sua rifioritura indicando, da ora alla scadenza della legislatura, un’esplicita competizione proporzionale tra le forze del cosiddetto campo largo nell’idea che sia la strada più adatta a capitalizzare il consenso di ciascuno così da sottoscrivere, solamente a urne chiuse, un accordo di governo capace di mandare la destra all’opposizione. Unica concessione “unitaria”, sfruttare con patti di desistenza le regole dei collegi maggioritari dove, in assenza di accordi preventivi su candidature comuni, la sconfitta è assicurata.
Rischio ripiegamento
Visto il pregio della chiarezza credo giusto rispondere con eguale sincerità e, dunque, sulla svolta di Franceschini non posso che manifestare i miei dubbi. Provo a darne conto. Primo, se davvero siamo alle prese con una “rottura epocale” che investe lo scontro tra democrazie e autocrazie, comunque queste siano travestite, trovo rischioso ridurre un’alternativa alla destra a un puro fattore tattico.
Vi vedo un ripiegamento con la rinuncia a scavare le fondamenta di un progetto che rinsaldi regole, coesione sociale e forme della rappresentanza, in sintesi tutto ciò che oggi è sottoposto all’attacco diretto e violento dei nemici delle democrazie.
In questo conflitto la dimensione programmatica ha un peso rilevante, dalla battaglia per un salario degno alla difesa di sanità e welfare per finire con serie strategie industriali, di ricerca e innovazione. Ma tutto questo da solo non basta perché rimane ben aperto il conflitto tra nuovo capitalismo e democrazia, capitolo che un’offerta di governo credibile non può delegare a un futuro contratto, se e quando dovesse nascere. Anche per un dettaglio in più.
Lo so anch’io che l’Ulivo è figlio di un tempo e una stagione oramai lontane. Altro è pensare l’alternativa di ora non come una mera addizione di sigle, ma come una chiamata in ruolo della società che stimoli e coinvolga i mondi del lavoro, della cultura, dell’impresa sana e innovativa. Almeno se l’obiettivo è contrastare i guasti della destra scuotendo la pianta per far uscire le persone di casa.
Il nuovo centro
Secondo, nello schema di Franceschini c’è forse un non detto o un sottinteso da chiarire. Penso di non mancare di rispetto nel chiedere se il metodo descritto possa portare nelle cose a una logica del doppio forno.
Tradotto: del Pd delle origini non si deve rinnegare la vocazione maggioritaria, ma bene che nasca una gamba solida al centro, a quel punto ognuno coltivi l’orto che può e a bocce ferme, nel senso di urne chiuse, ci si predisporrà a trovare una quadra.
Sul nuovo “centro” evocato da più parti verrebbe da dire, chi può e ne ha le capacità s’impegni in un progetto che potrà rivelarsi utile se saldamente ancorato a una coalizione di centrosinistra. Ma in questo discorso c’è un convitato che è bene non ignorare.
Lo riassumo così: se poi lo schema descritto dovesse condurre a una maggioranza composta dal Pd, dall’anima centrista e, chissà, una Forza Italia sganciata dal blocco sovranista, col taglio di qualche ala, se ne valuteranno sia la ragionevolezza che l’opportunità. Per correttezza, non è ciò che l’intervista propone, mi limito alla considerazione che non è quanto l’intervista esplicitamente esclude anche se sul punto spero di sbagliarmi.
La leadership
E siamo al terzo nodo e al ruolo della leadership in carica nel Pd. A Elly Schlein viene riconosciuto il merito d’avere rafforzato i consensi attingendo nel non voto e in parte nei delusi della sinistra e dei Cinque stelle. Fino qui siamo nei fatti. Ciò che risalta è l’orientamento a confinare il suo ruolo a tale compito, anche come conseguenza del ragionamento impostato.
Con ogni evidenza un accordo di governo fondato su di un contratto da firmare ex post (ripeto, a urne chiuse) dovrebbe per forza contemplare nella trattativa la triade programma-squadra-leadership senza ipoteche di sorta. Può funzionare? Coltivo seri dubbi per i motivi detti e perché nella stagione aperta accostarsi alle urne senza una leadership dichiarata e trasparente è un rischio che abbiamo già corso e da non ripetere.
Al fondo, l’approccio stesso della nuova stagione impressa da Schlein – quel suo essere «testardamente unitaria» – mi pare trovi nell’approccio di Franceschini più smentite che conferme. La destra – questa destra – non è imbattibile e gli ultimi mesi lo hanno dimostrato. Credo, però, che se un merito la stagione guidata da Schlein sta avendo sia proprio nella volontà di costruire un’alternativa che voglia tenere assieme concretezza e un’immagine di futuro. A dirla in breve, si chiama politica.
Temo che di fronte a una destra globale, diciamo pure un’internazionale oscurantista che muove all’assalto di democrazia e diritti umani calpestati, rispondere con desistenze elettorali e la nobile arte della tattica, non basti più. Tutte e tutti dobbiamo pensare bene al cambio d’epoca che ci avvolge, qui, in Europa e nel mondo. Almeno finché abbiamo tempo per farlo e per reagire.
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