L’ex ministro rottama Ulivo e Unione: inutile fingere, non si possono rifare. Alleanza tra i partiti di sinistra «solo all’uninominale». Poi lancia Ruffini e Forza Italia
È Dario Franceschini a far esplodere una bomba di silenzio nel Pd. È uno dei pochi “big” che al congresso hanno sostenuto Elly Schlein, uno che ha fatto e disfatto governi e segretari – Letta, Renzi e poi ancora Letta –, è il nume tutelare dell’alleanza giallorossa (dopo il governo Conte II chiarì ai suoi che in futuro l’accordo con M5s sarebbe stato «ineluttabile»). Da mesi chiuso in un mutismo che minacciava tempesta, a Repubblica ha consegnato il suo fulmine: la sua idea di come si costruisce una coalizione che sotto la guida della segretaria non ingrana. «Mi sono convinto che la destra la battiamo marciando divisi». L’uovo di Colombo è dunque paradossale: la coalizione non s’ha da fare.
Il realismo magico di Dario
Non ha senso dannarsi a cercare di riproporre un nuovo centrosinistra, serve «realismo», i partiti delle opposizioni sono diversi e lo resteranno, spiega, inutile aggrapparsi ai ricordi dei tempi andati dell’Ulivo e dell’Unione, è tutto finito. Meglio rinunciarci subito, evitare di «avvitarci in discussioni», chiudiamola qua, accontentiamoci di un accordo solo per la parte uninominale, per il resto ciascuno per sé.
Così Franceschini manda ai giardinetti Prodi e le sue proposte di questi giorni, in realtà quelle di sempre: inutile, come chiede il Prof, puntare a un programma comune.
Ma demolisce anche la linea della segretaria: lei, che pure ha capito che non è possibile mettere allo stesso tavolo Conte e Renzi, fin qui sperava di convincere gli alleati a mettere insieme almeno un programma di pochi punti essenziali.
No, ciascuno per sé, dice l’ex ministro, la competition è apertissima, Dio solo sa con quali ulteriori zuffe nel centrosinistra, oggi già non mancano; patto solo per le sfide uninominali, alla francese. Tradotto: si vince e si manda la destra a casa. Così non si costruisce una maggioranza per governare, ammette Franceschini, ma pazienza, «molte cose si discuteranno dopo il voto».
C’è un passaggio su Forza Italia che dovrebbe dare da pensare alla segretaria, è una preterizione, una cosa che non si vorrebbe dire ma si dice: l’ex ministro spiega a Forza Italia che con una legge proporzionale avrebbe vinto la «lotteria», ma – excusatio – assicura che non si tratta di un appello a Tajani.
Qui gli esegeti si dividono: chi riferisce che a palazzo Chigi a qualcuno stia cominciando a piacere il proporzionale – a noi non risulta. Chi – e sono quelli che pensano male, che fanno peccato ma spesso ci prendono – disegna un altro scenario: dopo il voto, se la non-coalizione franceschiniana vince, fa un governo ispirato alla «governabilità».
E se Conte fa i capricci, lo spediamo all’opposizione e lo sostituiamo con FI. Con un corollario: di un governo così, di una maggioranza Ursula per capirci, la premier non sarebbe certo Schlein.
L’ex Dc comunque smentisce quest’ipotesi malevola con chi gli chiede lumi. Per l’immediato la proposta a Schlein è “solo”, si fa per dire, di congelare le ambizioni da candidata premier e di adoperarsi per far crescere il Pd. Che è poi quello per cui la corrente di Franceschini l’ha sostenuta. Infatti l’ex ministro loda il suo restare estranea al «chiacchiericcio di giornata» e il suo parlare solo di temi «concreti», una cosa che «arriva alla gente».
In molti smentivano il ridimensionamento alla segretaria: se il Pd al voto va forte, è il ragionamento, nessuno le leva palazzo Chigi, del resto la campagna elettorale sarà tutta polarizzata fra lei e Meloni.
Schlein fa Schlein
E lei si fida? In queste ore Schlein ha continuato a fare Schlein: quella che si concentra sulle battaglie e sulle «cose concrete». Dal Veneto, ha postato sui social una foto ai cancelli del Petrolchimico di Marghera, «insieme ai lavoratori». Domani si unirà al presidio per un ospedale del vicentino e poi alla commemorazione di Giulio Regeni a Fiumicello.
Non sapeva dell’intervista, ma nei giorni scorsi aveva parlato con l’ex ministro. Del resto nel Pd, il dibattito è stato troppo a lungo «molto soffocato», aveva detto Luigi Zanda proprio al nostro giornale il 15 gennaio.
Chi è più vicino alla segretaria minimizza l’impatto della «bomba»: quello di «Dario» è «puro pragmatismo», «è una risposta brutale e schematica a un tema che si pone anche Schlein, cioè come si tengono tutti insieme». Per l’ala riformista, ammutolita come tutti, indigesto è il passaggio in cui l’ex Dc benedice una formazione centrista fuori dal Pd, Ruffini e compagni di parrocchia.
Ma i riformisti portano a casa un’ammissione: Schlein «arriva alla gente», brava è brava, ma non è adatta a fare la premier, intanto galoppi per rafforzare il Pd, poi a trovare un modo per governare ci penseranno i professionisti.
Se nel Pd regna un silenzio imbambolato, va detto che all’opposizione qualcosa si sblocca. Carlo Calenda loda l’intelligenza dell’intervista. E persino dal lato M5s qualcosa si scongela. Non ufficialmente, ma un deputato molto molto vicino a Conte dice che sì, «per il M5S è senza dubbio una linea compatibile con la nostra idea di essere progressisti indipendenti», insomma «è una linea su cui ci si può confrontare, su cui si può lavorare».
Eppure «alla gente», per dirla con Franceschini, cosa potrebbe “arrivare” di questa idea di non-alleanza? Perché, per esempio, senza uno straccio di programma comune, e continuando a giurare di essere incompatibili come fanno ora, gli elettori M5s dovrebbero votare, per dire, un renziano all’uninominale? E, ancora: senza accendere la speranza realistica di un’altra Italia rispetto a quella di Meloni – di un realismo di un’altra natura rispetto a quello di Franceschini – perché gli astensionisti dovrebbero aver voglia di andare a votare? Per una maggioranza che ammette, e lo teorizza pure, di non poter dare alcuna garanzia di governare?
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