«Ti sbagli. Se andiamo avanti così, al governo, io al voto in primavera ci arrivo lesso. Bollito. E con un movimento al 2 per cento». Roma, tre giorni prima della caduta del governo di Mario Draghi. Giuseppe Conte ragiona con un alto dirigente del Pd. Il tono è amichevole, il senso del discorso no.

La scena è quella di Mi ritorni in mente di Lucio Battisti: un sorriso, e ho visto la mia fine sul tuo viso. Va così, senza la poesia: il dirigente del Pd vede la fine della storia sul viso eterno sorridente di Conte. Ma, conoscendo bene l’ex premier, non ci crede davvero.

Come lui, fino al pomeriggio del 20 luglio in molti al Senato non crederanno che il no del presidente del M5s sia definitivo. Quel giorno invece finisce davvero la tormentata storia d’amore fra un partito e un movimento. Finisce, apparentemente, per effetto collaterale della fine del governo: 192 presenti, 133 votanti.

La fiducia a Draghi tecnicamente passa: ma con 95 sì, il risultato più basso della legislatura, Draghi non può né intende restare. Ma quell’effetto collaterale decide, in quell’esatto momento, il futuro del paese: la frattura M5s-Pd mette a rischio una sessantina di collegi uninominali. Al netto di un miracolo, che in queste ore sia Conte che Letta chiamano «rimonta», la destra sarà avanti ovunque.

Oggi, a una settimana dal voto, dall’ala sinistra del Pd emergono voci che indicano come inevitabile che, dopo il diluvio, si riannodi il filo: «Dobbiamo trasmettere l’idea che la partita è riaperta e che si può formare una maggioranza per governare alternativa a quella di centrodestra. Un campo largo, dal terzo polo ai Cinque stelle, si può realizzare in una maggioranza di governo dopo il voto», dice il ministro Andrea Orlando alla Stampa.

E Goffredo Bettini, allo stesso giornale: «Si va divisi al voto. I reciproci colpi sono inevitabili. Non credo, tuttavia, che porteranno a una condizione di “non ritorno”. Il filo del dialogo con tutti i democratici non va spezzato». Altri, come il ministro Lorenzo Guerini, sono severi: «La scelta irresponsabile del M5s è un fatto politico dirimente, che non possiamo non considerare o archiviare», sentenzia a Domani.

Posizione speculare a quella di Conte: «Questi vertici del Pd si sono rivelati inaffidabili e scorretti nell’attribuirci responsabilità e colpe quando invece dietro c’è un disegno molto chiaro, cinico e opportunista di emarginare il Movimento e di dividersi il consenso elettorale residuo per ricostruire nuove alleanze che poi sono fallite, come quelle sottoscritte e poi stracciate con Calenda, Di Maio, Tabacci e con chiunque meno che con noi».

Conte racconta una versione che, c’è da scommetterci, tornerà dopo il voto: che l’alleanza poteva essere recuperata, anche dopo la rottura con Draghi. È così? Oppure la scelta di spezzare il sodalizio giallorosso era già stata presa, e prima?

«Giorno folle»

Mario Draghi (LaPresse)

«Non capisci che così resusciti Salvini, ricompatti il centrodestra, e si va dritti al voto?». «Ma no, vedrai, non si va al voto». «Mattarella scioglierà le camere», «Ma no, non lo farà». Sono le quattro del pomeriggio. Enrico Letta parla a brutto muso con Conte nella saletta riunioni del gruppo grillino, al primo piano del Senato.

Dall’altra parte del corridoio, in aula, il dibattito procede verso un finale ormai inevitabile. Con Letta ci sono i ministri Dario Franceschini e Roberto Speranza. A quattro porte di distanza c’è l’ufficio della presidente dei senatori del Pd, Simona Malpezzi. Con lei aspettano Debora Serracchiani, il ministro Andrea Orlando, il vicesegretario Peppe Provenzano, Enrico Borghi, Emanuele Fiano. Altri bussano, entrano, poi tornano in aula.

La mattina Draghi ha pronunciato un duro discorso alla sua maggioranza ormai a pezzi, e ha alzato un cartellino rosso contro Lega, Forza Italia e M5s. Ed ha concluso con parole che suonano come l’ultima sfida al parlamento: «Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi e che si è poi affievolito? Questa risposta non la dovete dare a me, ma a tutti gli italiani».

Al punto in cui siamo, è pomeriggio, tutto è già successo: la Lega ha già depositato la sua mozione di fiducia in cui chiede la cacciata dei grillini dal governo e il rimpasto. È già chiaro che non voterà la mozione Casini, quella del Pd e alleati. Ed è un atto ostile verso Draghi: dalla sera prima la Lega sa che il premier esclude un rimpasto formale. Salvini è già andato a villa Grande e ha già convinto Berlusconi. Forza Italia ha tentennato qualche ora: tutti gli interventi vengono ritirati e viene iscritto a parlare solo Maurizio Gasparri: «Perché io posso sostenere una tesi o il suo contrario», spiega non senza autoironia.

Draghi è uscito due volte dall’aula con il cellulare in mano per contattare l’ex cavaliere. Lo ha pregato, preoccupatissimo, un senatore forzista. Ma Berlusconi è “protetto” da un cordone di pretoriani e pretoriane, Draghi non riuscirà a parlarci, per due volte non glielo passano. Ma questa è un’altra storia.

Quella che seguiamo si svolge nella stanza con Conte. Il presidente grillino non si smuove: il suo gruppo prepara un appoggio esterno che assomiglia di più a un’opposizione. «Se lo fate, sarà finita l’alleanza e le elezioni saranno un disastro», gli dice Letta, «se invece votate sì, e la Lega no, Draghi si ritirerà ma salviamo l’alleanza». La risposta è no.

Eppure i dirigenti del Pd provano ancora. Perché l’uomo, Conte, è così: sembra sempre sul punto di. Ma stavolta non può cedere e il perché lo ha fatto capire venti giorni prima a Franceschini: non controlla il gruppo degli scatenati senatori, tutti schierati per il ritorno all’opposizione. Letta torna nella stanza di Malpezzi in una folata di rabbia gelida. Dopo un’ora chiamerà al cellulare Conte, ultimo tentativo a cui lui stesso non crede più: pochi minuti dopo infatti Maria Domenica Castellone pronuncia la dichiarazione di voto dei grillini: «Lei non ha dato risposte alle nostre domande», declama verso Draghi, «esistono condizioni minime di leale collaborazione e rispetto, che coinvolgono la dignità di una forza politica e le sue battaglie. Noi togliamo il disturbo, presidente». «Una giornata folle», dirà poi Letta.

Dopo pochi giorni, il 26 luglio, alla direzione del partito, Letta mette una pietra tombale sull’alleanza con i grillini. «Nessun accordo con il M5s», dice, in quanto sono nel «trio degli irresponsabili» con Lega e FI. Con gli altri si faranno accordi “tecnici” non programmatici. Finirà così con la lista rosso-verde, che quanto a «irresponsabilità», se questo fosse davvero il criterio, ne avrebbe da vendere: Nicola Fratoianni non ha mai votato la fiducia.

Letta, davanti alla pubblica opinione e al suo partito, si carica sulle spalle la rottura con Conte: i “riformisti” guardano con entusiasmo verso Carlo Calenda, che è alternativo agli ex alleati. L’ala sinistra, che da sempre lavora per il «campo largo», è ammutolita. Il partito è diviso, assaggio del dopo: alla vigilia della crisi c’è stata un’intempestiva dichiarazione di Marianna Madia alla festa dell’Unità di Roma: «Il M5s è incompatibile col Pd».

Il giorno dopo la crisi invece l’autorevolissimo senatore Luigi Zanda dichiara: «Nessuna coalizione con il M5s ma solo un’alleanza elettorale». Il senatore sa che la rottura definitiva terremota i risultati del Pd, dalle imminenti politiche alle future regionali, a partire dal Lazio.

Il piano inclinato

Giuseppe Conte e sullo sfondo Enrico Letta (LaPresse)

«La rottura era un piano inclinato sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno ci credeva. E chi ci credeva non voleva fermarla». Incrociamo il racconto di due dirigenti del Pd, con due opinioni diverse sul futuro dei rapporti fra Pd e M5s. Entrambi in corsa elettorale, chiedono di restare anonimi ma offrono la loro ricostruzione. Il primo grado di scivolamento, concordano, avviene a marzo, dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Letta spinge forte sugli aiuti militari a Kiev, ma i sondaggi dicono che gli italiani sono più preoccupati per le conseguenze economiche della guerra che per la prepotenza di Putin. Conte fiuta l’aria e comincia la sua conversione pacifista, quella sulla quale ancora venerdì scorso Draghi ha usato parole severe.

Il 21 aprile, Natale di Roma, il sindaco Roberto Gualtieri annuncia che nell’imminente decreto Aiuti il governo gli conferirà i poteri da commissario straordinario al Giubileo e che grazie a questo «abbiamo deciso di dotarci di un nuovo impianto per la valorizzazione energetica dei rifiuti». È un dito nell’occhio agli alleati, i ministri grillini non votano, la polemica si trascinerà fino al voto finale del Senato. «Gualtieri poteva prendersi quei poteri ma annunciare l’inceneritore più avanti, l’avremmo gestita meglio», dirà poi Conte a un dirigente romano.

Intanto i sondaggi mordono. Il 13 giugno, giorno dopo il primo turno delle comunali, i grillini si risvegliano con i consensi a picco. L’interlocutore antipatizzante: «Loro sono sempre stati deboli alle amministrative ma si spaventano. Non vedono il vero fenomeno: la perdita di consensi della Lega, che viene scalzata da FdI al nord e crolla al sud».

L’altro: «Nel Pd c’è chi continua a dire che l’alleanza ci porta via consensi. È l’opposto: il Pd diventa il primo partito e i Cinque stelle soffrono». Il malumore grillino straborda sui media prima dei ballottaggi. Fino all’ultimo restano in forse le primarie di coalizione in Sicilia, il 23 luglio. Si celebreranno, vincerà la candidata del Pd Caterina Chinnici, ma la rottura dei Cinque stelle avverrà comunque, a ridosso del voto. La destra intanto si è spaccata e il candidato Renato Schifani può essere battuto: da un’alleanza giallorossa.

Ma il ragionamento grillino è: meglio perdere ma riguadagnare voti. Del resto a Roma Conte da tempo ha iniziato l’operazione “ritorno alle origini” per recuperare i consensi perduti. A fine aprile ha annunciato che da ora dirà no all’invio di armi in Ucraina. Con zero effetti, il 1° marzo hanno votato sì a un provvedimento che autorizza il governo fino a fine anno, ma ora cavilla sulle «armi difensive» e quelle «offensive». I militari spiegano che la differenza non esiste.

Distinguersi, distinguersi

Ma il nuovo motto grillino è «Distinguersi, distinguersi, distinguersi». Il 16 giugno è un’altra data cruciale. Draghi è a Kiev con Volodymyr Zelensky. I riflettori del mondo sono puntati su di loro: ci sono anche il presidente francese Macron, il cancelliere tedesco Scholz e il presidente rumeno Iohannis. Il ministro Luigi Di Maio sceglie incredibilmente questo giorno per rompere con il movimento.

«Mai andati così male alle elezioni», dice, sul governo «non possiamo attaccarlo un giorno sì un giorno no», Conte «non imiti Salvini». La scissione sarà formalizzata pochi giorni dopo, con fretta indecifrabile. Anche qui i nostri due interlocutori divergono. Uno sostiene che sia stata spinta da palazzo Chigi per rendere la maggioranza autosufficiente dai ricatti pentastellati. L’altro che il ministro, ormai trasformato in un uomo Nato, ha saputo che al Senato il M5s prepara una risoluzione contro le armi. I suoi del resto, certi che non saranno ricandidati, premono per strappare.

Letta non commenta, ma dal Pd arrivano applausi a Di Maio. Conte crede che sia la prova di un disegno (del governo? del Pd? Per lui è lo stesso): svuotare il M5s, far saltare la sua leadership, in effetti traballante. È la goccia che fa traboccare un vaso colmo di frustrazioni: è stato ignorato nella partita delle nomine Rai su mandato – boatos di palazzo – di Draghi, che con la sua maggioranza procede per rapporti bilaterali.

Quelli con il successore sono gelidi e faticosi. A fine giugno verrà persino messa in circolo la voce, smentita, che il premier abbia chiesto a Grillo di far fuori Conte.

La scissione di Di Maio è ufficializzata il 21 giugno, le tensioni fra ex sono alle stelle, con il Pd è calato il gelo. Il 6 luglio Conte va a palazzo Chigi per consegnare al premier una lettera in nove punti, la sua “agenda sociale”. La nostra voce narrante simpatizzante con Conte giura che si tratta «di una mossa propositiva». Ma viene accolta con freddezza da Draghi. «Era un documento ben costruito, che in nessun modo poteva essere considerato populista», ci spiega, «avrebbe ridato peso al M5s nelle compagine di governo». Ma nella mancata risposta Conte sente «un elemento di disprezzo». Prende «male» anche il lavoro che il ministro Orlando conduce con le parti sociali sul salario minimo: un’altra bandiera scippata ai Cinque stelle, che contestano: «Così non va bene».

Fine corsa

Torniamo nella saletta del Senato dove ci sono Conte, Letta, Franceschini e Speranza. «Se tu non voti la fiducia le conseguenze sono due», stavolta non è il segretario a parlare, «si va al voto e mandi per aria la prospettiva politica a cui lavoriamo da tre anni. Aspetta, tanto da settembre saremo tutti comunque in campagna elettorale». E lì arriva la risposta che abbiamo già letto: «Ti sbagli. Se andiamo avanti così nel governo Draghi io al voto, in primavera, ci arrivo lesso. Bollito. E con un movimento al 2 per cento». Conte non crede alla caduta del governo. Ma sa di dover mollare il Pd: per lui l’alleanza ha un prezzo troppo alto.

Risponderà ancora all’ultima telefonata di Letta. Draghi svolge la replica in aula. Ed è l’ultimo schiaffo ai grillini: il reddito di cittadinanza, dice, «è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva»; e sul superbonus «chi ha disegnato quei meccanismi di cessione, senza discrimine e senza discernimento, è lui (o lei, o loro) il colpevole di questa situazione, in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto». Anche fra i banchi del Pd stupisce la durezza dei toni. Per i Cinque stelle la fiducia è invotabile.

Due prequel

LaPresse

I segnali c’erano tutti, da tempo. Mesi prima, il 10 maggio, in un incontro a quattr’occhi fra Letta e l’ex premier alla sede dell’Arel si parla di Ucraina e dell’inceneritore romano. Sfugge qualche do di petto, si sente fuori dalla porta. Le fonti del Nazareno ammettono che fra i due ci sono «tensioni» e «posizioni non pienamente convergenti». Già il fatto che l’incontro viene valutato «positivo perché non c’è stata rottura» è il segno, inedito, che la rottura ormai è possibile. Anzi probabile.

C’è un altro prequel il 1° luglio, venti giorni prima della «giornata folle». A Cortona è convocata l’assemblea di Areadem, la corrente di Franceschini, che è il padrone di casa. Il dibattito clou è fra Letta, il ministro della salute Speranza e Conte, il gotha dei teorici dell’alleanza giallorossa, manca solo l’ex segretario Nicola Zingaretti, da tempo in rotta con il ministro della Cultura. Segue cena, ci sono anche alcuni fedelissimi di Franceschini. Non tutti hanno la stessa impressione su quello che dice Conte, c’è chi coglie una sfumatura mentre si rivolge all’amico «Dario»: «I miei vogliono rompere, non li tengo».

Il 3 luglio, nelle conclusioni, Franceschini lancia un messaggio severo: «Da qui alle elezioni, per andare insieme al M5s dobbiamo stare dalla stessa parte. Se ci sarà una rottura o una distinzione, perché un appoggio esterno è una rottura, per noi porterà alla fine del governo e all’impossibilità di andare insieme alle elezioni». Un avviso a Conte o, meglio, una mano per domare i suoi. Franceschini si appella anche al premier: «Draghi e Conte hanno in mano il destino della prossima legislatura, servono generosità ed elasticità».

Finale d’aula

Il finale è noto: Conte punta a rigenerare sé stesso e i suoi all’opposizione. Rinunciando all’alleanza, dunque a un tesoretto di seggi uninominali. Scommettendo di riprendersi i consensi al proporzionale. A sinistra è una nota vecchia regola, «meglio perdere che perdersi».

La «giornata folle» del Senato finisce alla buvette: Paola Taverna, Laura Bottici e altri grillini brindano con un prosecco alla fine della loro esperienza di governo. Ma è a Montecitorio che cala formalmente il sipario, giovedì scorso.

Ultima seduta della Camera, il deputato Francesco Silvestri chiede la parola: per il movimento, dice, il governo «è stato un esperimento, veniamo da cinque anni di un’opposizione incredibile, dove abbiamo cercato di portare un messaggio al paese e ci siamo anche riusciti». Applausi dai suoi. Si torna dunque alla lotta: l’opposizione è data come fatto già compiuto, prima e a prescindere dal verdetto del voto.

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