Fino alla fine degli anni Ottanta il sistema partitico e il comportamento elettorale sono contrassegnati da una grande stabilità, con punte di vera e propria staticità tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta.

I cambiamenti di voto dopo le prime elezioni politiche (le analisi di lungo periodo non partono mai dalla prima elezione di instaurazione di un regime democratico sono limitatissimi e il sistema partitico si assesta su otto partiti presenti costantemente in parlamento: da destra a sinistra, Msi, Pnm/Pmp/Pdium (i monarchici), Pli, Dc, Pri, Psli/Psdi, Psi, Pci.

La frammentazione, pur consistente, non conosce variazioni di rilievo fino agli anni Settanta, e la volatilità (il cambio di voto da un’elezione all’altra) è molto bassa: il sistema appare consolidato.

Il primo terremoto e la dinamica bipolare

Alla fine degli anni Ottanta l’allentamento della forza identificativa delle ideologie, l’emergere di nuovi temi pregnanti e di nuove priorità, i processi di trasformazione socioeconomici e la secolarizzazione hanno allentato le fedeltà di voto pregresse e aumentato la disponibilità a cambiare voto.

La volatilità elettorale si impenna andando a premiare nuove offerte politiche che nell’arco di due anni, 1992‑1994, scompaginano il panorama politico precedente.

Il sistema partitico incardinato sul formato octopartitico fin dal 1948 (con il cambio negli anni Settanta tra i monarchici che scompaiono e i radicali che entrano nelle istituzioni) muta fisionomia: scompare il partito cardine del periodo precedente – la Dc – altri nascono ex novo – Lega Nord e Forza Italia (più Rifondazione comunista che però si pone ideologicamente e organizzativamente in continuità con il passato comunista) – altri si trasformano più o meno radicalmente – Pci in Pds, Msi in An – altri, infine, scompaiono – i partiti laici di governo: Psi, Psdi, Pli, Pri.

Questa rivoluzione è però annunciata dalle elezioni del 1992 dove la frammentazione, già in leggera crescita nel corso degli anni Ottanta, aumenta bruscamente per poi esplodere nel 1994. Da allora in poi la competizione politica si articola sul confronto tra gli schieramenti di destra e sinistra.

Il secondo terremoto e la tripartizione

L’adattamento degli elettori alle scelte disponibili dopo il 1994 è improvvisamente e ulteriormente ribaltato dall’irrompere di un inedito protagonista, il Movimento cinque stelle, che, dal nulla, conquista in due elezioni consecutive – 2013 e 2018 – la prima posizione.

Un partito organizzativamente e ideologicamente incommensurabile rispetto a tutti gli altri che, grazie alla sua ubiquità politica e alla sua indeterminatezza ideologica oltre a un graffiante appello anti establishment, attrae consensi lungo tutto l’arco politico.

Proprio la sua alterità consente una mobilità prima sconosciuta in quanto molti elettori dei partiti schierati a destra e a sinistra si sentono «autorizzati a tradire» il loro precedente orientamento politico‑ideologico.

L’affermazione del M5s non sconvolge tuttavia il formato del sistema partitico in quanto la clamorosa e corposa novità della sua irruzione appanna due elementi innovativi nel sistema del 2013: la scomparsa della sinistra radicale post 1992 (da Rifondazione a Sel, più addentellati vari) e la discreta affermazione di un nuovo partito centrista‑liberale animato dall’ex presidente del Consiglio Mario Monti (Scelta civica) che però ha una brevissima e stentatissima vita.

L’unico elemento nuovo è dato solo dalla sua apparizione. Lo spazio politico tripolare non riesce tuttavia a solidificarsi. Anzi, proprio il travolgente successo del M5s nel 2018 che ottiene una percentuale di consensi sopra il 30 percento pone le basi per una disgregazione della logica tripolare.

L’estraneità del M5s rispetto alla dinamica bipolare si consuma nell’arco di un anno e già alla fine del 2019 riemerge una competizione bipolare, in continuità con il perdurante, sottostante, e invalicabile fossato tra destra e sinistra.

I due terremoti elettorali del 1994 e del 2013 hanno certo modificato il sistema partitico ma, allo stesso tempo, non hanno prodotto sconvolgimenti negli allineamenti politici di fondo degli elettori. In primo luogo, dopo aver definito le proprie preferenze nelle elezioni del 1994, per vent’anni gli elettori non si sono più spostati tra un versante e l’altro della barricata.

Fino al 2001 soltanto una quota tra il 4 e il 6 percento ha oscillato tra le due coalizioni alternative di centro‑destra e centro‑sinistra.

Lo stesso vale per le elezioni del 2008 nelle quali i passaggi tra i partiti della coalizione di centro‑sinistra a quelli di centro‑destra sono stati intorno all’1,5 percento, tanto in una direzione quanto in quella opposta e altrettanti in direzione inversa. 

In secondo luogo, persino quando la volatilità totale degli elettori è salita moltissimo a causa dell’ingresso del M5s nel 2013, e a questo partito sono affluiti consensi sia da elettori del Pd che del Pdl, gli scambi diretti tra destra e sinistra hanno coinvolto appena il 3 percento dei voti validi.

E lo stesso vale per il 2018. Inoltre prendendo a riferimento il campione di elettori costantemente monitorato dal 1987 al 2018, in questo lungo periodo il 38 percento ha votato per lo stesso partito (compresi i cambiamenti di etichetta) o per la stessa area politica.

Mentre solo il 6 percento è passato da un fronte all’altro; o, una volta apparso il M5s, si è «rifugiato» verso quelle sponde nel 13 percento dei casi (senza dimenticare che un 20 percento si è sempre astenuto).

Quando l’Italia è cambiata

Vittorio La Verde / AGF

Per molto tempo la configurazione del sistema partitico e il comportamento elettorale sono stati in linea con quelli delle
democrazie europee.

Le grandi alternative partitiche che si definirono negli anni Venti con l’immissione di milioni di nuovi elettori grazie al suffragio universale maschile dopo la prima guerra mondiale (e favorite dall’adozione del sistema elettorale proporzionale ovunque, a eccezione, ovviamente, della Gran Bretagna), si sono congelate per più di cinquant’anni.

La «prima scelta», quella effettuata negli anni Venti, si è poi riprodotta continuamente, in primis per trasmissione familiare, in secondo luogo per consuetudine, in terzo luogo per la forza aggregativa dei partiti e delle loro reti organizzative.

In contesti di scarsa mobilità fisica – si nasceva, si lavorava e si moriva nello stesso posto,per la stragrande maggioranza delle persone – e di limitata circolazione delle informazioni (incomparabile rispetto al dopoguerra per non parlare dell’attuale era internettiana), le scelte politiche effettuate con il primo voto permangono inalterate e creano una tradizione.

In alcune aree geografiche si diffonde così una scelta partitica che il colore politico rimane impresso per decenni: il Red Wall inglese delle zone minerarie a favore del Labour party, la Vandea conservatrice francese dove la sinistra non ha mai messo piede, la cattolicissima Baviera feudo della Csu: e in Italia, nell’area tridentina del Triveneto con alcune appendici lombarde, e nell’area anarco‑repubblicana e ribellista a cavallo degli Appennini, si coagula un consenso, verso le espressioni partitiche confessionali popolare‑democristiana e socialista‑comunista.

È proprio la capacità da parte dei partiti di mantenere una presenza diffusa di cluster positivi la base della loro tenuta. Non per nulla, la crisi della Dc, e soprattutto del Psi, agli inizi degli anni Novanta, era iscritta nella loro perdita di aree forti, omogenee e concentrate, al punto che in ampie porzioni del territorio nazionale il Psi aveva perso gran parte di cluster positivi: il suo voto si era frammentato e disperso e quindi non aveva più basi di appoggio solide per diffondere il proprio consenso.

Il peso del territorio

Vittorio La Verde / AGF

Nonostante il tramonto dei forti riferimenti ideologici e delle reti associative a essi collegati negli anni successivi al 1994 il comportamento elettorale continua a mostrare resilienza territoriale: gli elettori sostituiscono i vecchi protagonisti con nuovi attori cosicché la destra forza‑leghista egemone al Nord si insedia al posto della Dc, e i succedanei del Pci, e in parte del Psi, continuano a presidiare la zona rossa.

Questa divisione territoriale riflette chiare distinzioni ideologiche. Il Sud, invece, è un’area di appartenenze instabili. È infatti dalla disgregazione nel Mezzogiorno dei cluster territoriali della Dc e del Psi dal 1972 in poi che si intravedono i segni della loro crisi.

Solo nel 2018, per la prima volta nella storia repubblicana, un partito, il M5s, ha egemonizzato tutto il Mezzogiorno. Nel passato Dc e Pci avevano conquistato percentuali altissime nelle are geopolitiche di riferimento, così come, di recente, la Lega ha attratto molti consensi in alcune zone del Nord.

Ma il successo del M5s nel 2018 in un’area così ampia e a livelli così alti non ha paragoni nelle elezioni successive al 1948. Questa è forse l’indicazione più significativa di quanto il comportamento elettorale sia diventato volatile e pronto quindi a nuovi clamorosi, massicci, cambiamenti di fronte anche in altre aree dell’Italia.

Le caratteristiche socioeconomiche dei territori incidono sul comportamento elettorale. Nei primi decenni postbellici il voto nelle campagne è risultato fortemente correlato al sostegno a uno dei due grandi partiti a seconda del tipo di attività agricola prevalente.

Laddove prevaleva il bracciantato e la mezzadria il Pci dominava, e altrettanto faceva la Dc laddove era diffusa la piccola proprietà. I risultati elettorali per comune connessi con i tipi di occupazione in agricoltura dimostrano inoltre come negli anni Cinquanta e Sessanta il voto nelle campagne fosse molto più esplicativo del consenso alla Dc e al Pci di quanto non lo fosse quello nelle aree industriali.

Infine, sul piano culturale, l’analisi della diffusione territoriale dei matrimoni religiosi conferma lo stretto rapporto tra religione e voto, visto l’ancoraggio delle scelte matrimoniali (religioso o civile) con le zone bianche e rosse. 

A fianco delle caratteristiche socioeconomiche e culturali, un altro potente fattore esplicativo del voto preso qui in esame è fornito dall’incardinamento di un partito in una certa area.

La continuità

LaPresse

L’analisi dei flussi di voto da una elezione all’altra ha mostrato che, nella maggior parte dei casi i partiti hanno conservato il loro bacino elettorale. Questa continuità rappresenta un asset decisivo per garantire il successo del partito stesso. Essa infatti si allenta solo nei momenti di crisi sistemica quando le difficoltà a mantenere il consenso negli stessi territori da parte dei maggiori partiti favoriscono l’affermazione dei nuovi venuti.

Per andare più a fondo sulle dinamiche del comportamento elettorale questo lavoro si è avvalso anche delle dichiarazioni di voto di un ampio campione di persone lungo tutta la loro vita elettorale dal 1987 al 2018. Come accennato più sopra, nonostante i mutamenti tellurici nel sistema partitico, nel 2018 una quota consistente di elettori ha mantenuto il proprio imprinting iniziale, rimanendo all’interno delle rispettive aree di appartenenza, a eccezione, parziale, di coloro che provenivano dalla Dc; proprio la collocazione centrista e «pigliatutti» della Democrazia cristiana ha fatto sì che i suoi sostenitori si siano poi orientati su diverse offerte politiche, seppure con una chiara inclinazione a destra.

In complesso, ben pochi sono passati da destra a sinistra e viceversa, a conferma della solidità delle appartenenze originarie, e di quanto le scelte iniziali marchino il percorso politico successivo. Solo l’apparizione del M5s, che ha attratto consensi da ogni dove grazie alla sua collocazione ubiqua nello spazio politico destra‑sinistra e al suo appello trasversale, di rottura e anti‑establishment, ha consentito a molti di sganciarsi da fedeltà pregresse senza tradire le loro scelte originarie.

In particolare, a ulteriore conferma di un impianto di lungo periodo della politica nazionale, sono gli elettori con il più forte imprinting ideologico, i comunisti e i missini, quelli che sono rimasti fedeli alla loro scelta politica iniziale: ancora nel 2018, il 50 percento dei comunisti di un tempo ha votato per il Pd più un ulteriore 12 percento per altri partiti di sinistra; e il 67 percento dei missini di un tempo ha sostenuto un partito del centro‑destra.

Pochi hanno attraversato il confine. I democristiani di un tempo hanno dimostrato il loro maggior penchant per la destra e solo una piccola quota è andata verso il Pd. I socialisti dell’era craxiana, contrariamente ad alcune interpretazioni, si sono orientati molto di più a sinistra (43 percento di cui 39 percento al Pd) che a destra (23 percento). I centristi (Pli, Pri e Psdi) si sono divisi equamente tra centro‑destra (47 percento) e Pd (41 percento), mentre, caso unico ma significativo, hanno praticamente ignorato il M5s.

I pentastellati hanno raccolto consensi da tutti, in misura di circa il 20 percento da parte di ex comunisti, ex socialisti, ex missini ed ex democristiani, e ancor di più dall’area ex radical, un terzo della quale ha sostenuto Grillo confermando così la sua insofferenza per le offerte politiche tradizionali (e per quasi un quinto, una quota nettamente superiore a quella di altri elettori, ha preferito l’astensione).

In conclusione, i settant’anni di democrazia italiana sono attraversati da linee rosse di lungo periodo che marcano ancora la politica nazionale, percorsa altresì da scosse che ne hanno alterato la fisionomia senza tuttavia spezzare quel filo rosso. Questa continuità si ritrova nei territori e nelle scelte di fondo degli elettori più che negli attori partitici.

La resistenza delle antiche aree bianca e rossa alla penetrazione degli avversari dopo quasi un secolo è quanto di più duraturo e persistente si possa pensare. Anche se nella zona bianca l’interprete confessionale è stato sostituto da espressioni partitiche diverse (Lega soprattutto) e nella zona rossa la sinistra storica ha eredi trasformati, pur tuttavia rimangono territori off limits per gli avversari.

La stessa instabilità elettorale del Sud, che ha trovato con il travolgente successo del M5s nel 2018 la sua ultima espressione, è un elemento di continuità con il passato perché nessun partito ha mai «controllato» quella zona (ed è assai probabile che lo stesso accada prossimamente con il declino del M5s).

E ancora, la costanza nel voto di quei baby boomers che trent’anni fa avevano fatto scelte ideologiche intense, a sinistra e destra, e sono rimasti dalla stessa parte della barricata, fornisce un altro tassello al mosaico della continuità. A questi tratti di persistenza politico‑ideale se ne associano tuttavia altri di segno ben diverso, vale a dire i mutamenti nelle dinamiche e nel formato del sistema partitico e dei partiti stessi (oltre a diverse configurazioni valoriali che emergono dalla ventata populista e dalla visione di una società chiusa o aperta).

Molti partiti storici sono scomparsi, a cominciare dai rappresentanti del Risorgimento (i liberali e i repubblicani e, con una certa, forse eccessiva, forzatura, i monarchici); lo stesso vale per i due nuovi protagonisti dell’estensione del suffragio a cavallo della prima guerra mondiale (socialisti e cattolici). Resistono, ovviamente trasfigurati, i protagonisti del conflitto legato alla nascita della Repubblica: gli eredi del Pci e gli eredi del neofascismo.

Poi, il terremoto del 1992‑1994 ha portato alla ribalta nuovi attori sul fianco destro (FI e Lega) che sono tuttora presenti, mentre nessuno ha raccolto né l’eredità piena della Dc né quella degli antichi partiti laici di governo. Infine, sul nuovo per eccellenza, il M5s, è arduo sia trovare antecedenti che prefigurare future traiettorie.

Comunicazione, leadership ed eletti

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 26-10-2022 Roma (Italia) Politica - Senato, Voto di Fiducia al Governo Meloni - Nella foto: Matteo Salvini, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante i lavori in Senato sulla richiesta di fiducia del suo Governo 10-26-2022 Rome (Italy) Politics - Senate, Vote of Confidence in the Meloni Government - In the photo: Matteo Salvini, Prime Minister Giorgia Meloni during the work in the Senate on the request for confidence of her Government

D’altro canto, tutto è cambiato dal dopoguerra all’interno dei partiti. La cesura degli anni Ottanta li ha fatti precipitare in una sorta di circolo infernale in cui la perdita di contatto con la società civile e l’aggrapparsi alle risorse pubbliche per continuare a esercitare le proprie funzioni si rincorrevano continuamente.

In questo deperimento strutturale i partiti si sono focalizzati sulla comunicazione, sulla leadership e sugli eletti. È proprio la difficoltà dei partiti a ristabilire un legame affettivo e un senso di identificazione, se non di appartenenza, con il proprio seguito a marcare lo scarto tra l’oggi e i primi quarant’anni di storia repubblicana.

 In connessione con fenomeni che riguardano tutte le democrazie avanzate, i partiti italiani si muovono tra nostalgie del passato di grandi organizzazioni di massa, soprattutto tra gli eredi delle formazioni di sinistra, e adeguamenti alla fluidità delle appartenenze, alla centralità dei rappresentanti eletti e alla pervasività della rete come elemento di raccordo tra società e partiti.

Il passaggio dei partiti attraverso le loro tre età – oro, ferro e argilla – è avvenuto attraverso una lenta erosione del rapporto di fiducia che avevano nei primi decenni postbellici, e che alimentava le loro strutture di simpatizzanti iscritti e militanti, devoti, affezionati e mobilitabili. I partiti degli anni Duemila appartengono ormai a una specie diversa rispetto a quella novecentesca.

Nella maggior parte dei casi, con la parziale eccezione del M5s, non si sono nemmeno resi conto di cosa comporta il passaggio da una società postindustriale (nella quale già i partiti si muovevano disorientati) a quella digitale.

Rimangono avvinti ai miti organizzativi del passato e a modalità di relazione con i cittadini ormai desuete e inefficaci.

La loro «retrotopia», come ci ammoniva Zigmunt Bauman, li condanna a una crescente irrilevanza. Eppure i partiti rimangono l’alfa e l’omega della democrazia. Senza di loro prosperano illusioni populiste o autoritarismi di vario genere, più o meno suadenti o brutali.


Il testo è tratto dalle Conclusioni di Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana di Ignazi, Risso e Wellhofer

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