Fu lo storico inglese Eric Hobsbawm a definire il Novecento «secolo breve», fissandone l’inizio allo scoppio della prima guerra mondiale e il termine al crollo dell’impero sovietico.

Una categorizzazione di grande fortuna che Miguel Gotor riprende nel sottotitolo del suo Generazione Settanta da poco uscito per Einaudi, contrapponendovi un’analoga “licenza” storiografica: Storia del decennio più lungo del secolo breve. 1966-1982.

I Settanta italiani, secondo questa lettura, sono insomma durati addirittura sedici anni, in una parabola che l’autore dilata da un lato al pre-’68, con riferimento al nuovo «protagonismo generazionale» in occasione dell’alluvione di Firenze, e dall’altro alla vittoria degli Azzurri ai Mondiali di calcio spagnoli, con l’improvvisa riscoperta di «un sentimento patriottico che si pensava per sempre smarrito tra le bombe, gli spari e gli intrighi di potere del decennio più lungo del secolo breve». Appunto.

Storia lunghissima

Monks from a monastery at the small hilltown Grottaferrata, south of Rome, examine the condition of thousands of books and manuscripts they have pulled out of the water and mud on the ground floor of the famed National Library in Florence, Italy and carried to the upper stores Nov. 8, 1966. The monks were sent to Florence by Pope Paul VI, to help save what could possibly be picked out of the water and mud still covering the city in most places after the disastrous flood that hit it on November 4 and the following weekend. (AP Photo/Mario Torrisi)

Al di là dei paletti cronologici, la lunghezza extra decade dei Settanta italiani è indiscutibile, per la densità e il rilievo degli eventi e delle loro conseguenze. Tanto che già una quindicina di anni fa, alla Triennale di Milano, una grande mostra interdisciplinare sul tema curata da Marco Belpoliti, Gianni Canova e Roberto Chiodi, utilizzò la medesima formula: il decennio più lungo… eccetera.

E se Winston Churchill fosse nato un paio di decenni più tardi, avrebbe senz’altro convenuto che l’Italia dei Settanta poteva rivaleggiare con i Balcani della sua celebre citazione, probabilmente superandoli: un luogo «che produce più storia di quanta riesca a consumarne».

Il catalogo di eventi (politici, economici, di costume, ma soprattutto terroristici e criminali) che Gotor squaderna in 385 pagine più un’altra cinquantina tra note (un libro nel libro) e indice dei nomi, è infatti sterminato. E di fronte a una casistica così rilevante in ogni sua parte, l’unica via da intraprendere – pena l’errore di una restituzione parziale, se non ideologicamente orientata – è quella di non lasciare da parte nulla.

Tensioni che continuano

©lapresse archivio storico politica Milano 15-12-1970 Manifestazione nella foto: un momento di una manifestazione studentesca organizzata per commemorare la morte dello studente Saltarelli durante l'autunno caldo BUSTA 56/15

È ciò che ha fatto l’autore che, classe 1971, il decennio lo ha vissuto bambino. Il suo libro è tra l’altro punteggiato da frequenti rimandi a canzoni di questo o quel periodo in esame, perché (come ha insegnato a tutti Guido Crainz) nulla come la cultura di massa è in grado di assorbire lo spirito del tempo. Chissà se Gotor ha mai sentito parlare dei Magma di Christian Vander, band di culto francese sospesa tra rock ultra cupo, il jazz di John Coltrane e una pazzesca cosmogonia fantascientifica. Nell’Italia di allora dei cantautori ebbe ovviamente un seguito ristretto, la si cita però qui per via di una folgorante definizione che loro stessi diedero della propria musica: come uno specchio, in cui ognuno ascoltandola può scorgere sé stesso riflesso (e in quel caso si trattava del volto alienato del genere umano stravolto dallo sviluppo).

È una definizione che calza a pennello anche per gli anni Settanta italiani, se girandosi indietro a guardarli è chi li ha vissuti, non importa quale lato della barricata occupasse allora: le tensioni che hanno caratterizzato quel periodo della nostra storia nazionale hanno forgiato biografie e personalità al pari, se non più, dei conflitti mondiali.

Tensioni che dispiegano effetti anche oggi, ormai a mezzo secolo di distanza. Tanto che a leggere la recensione che di Generazione Settanta ha scritto giorni fa Gianni Riotta su Repubblica, sembra che il libro di Gotor altro non sia che un pamphlet d’impeto contro chi, trascorso il decennio, si è poi ricollocato senza imbarazzi nell’establishment politico e soprattutto culturale dopo aver più che fiancheggiato la lotta armata, in particolare quella di sinistra. Ma si sa: spesso si legge solo ciò che si vuole leggere, sulla base del proprio vissuto. A volte scrivendone di conseguenza.

L’evoluzione del paese

FILE - In this Nov. 17, 1975 file photo the six heads of state and government attending Economic and Monetary summit meeting at the Chateau de Rambouillet, West of Paris, pose for a group portrait before the final session. From left: Premier Aldo Moro of Italy, Premier Harold Wilson of the Great Britain, President Gerald Ford of the United States, President Valery Giscard d'Estaing of France, Chacellor Helmut Schmidt of West Germany and Premier Takeo Miki of Japan. (AP Photo, File)

L’analisi di Gotor è ben diversa. E colloca la complicata vicenda italiana dei Settanta in uno scenario geopolitico più ampio di quello dei confini nazionali: dunque la fedeltà atlantica e la collocazione mediterranea in uno spazio temporale caratterizzato dalla contrapposizione tra i blocchi, con il nostro paese quindi irrimediabilmente posizionato nel punto di frizione tra più faglie. Tutto questo con l’aggiunta di una classe dirigente (burocratica e politica) formatasi durante il fascismo, con la prima uscita in molti casi indenne dalla Liberazione e a volte ai posti di comando anche negli anni Settanta.

E se l’anticomunismo dettato da Washington è l’inevitabile basso continuo del Dopoguerra italiano, la sua declinazione nazionale (siamo o non siamo il paese di Machiavelli e dei Borgia?) costituisce un formidabile elemento di comprensione della prima fase del decennio, segnato dalle stragi fasciste, dalla macchinazione antianarchica, dalle collusioni tra eversione e apparati di sicurezza dello Stato (a tutti i livelli e con ogni divisa), dalla continua minaccia di golpe. L’elenco è interminabile, sappiamo tutti quanto tragico. E Gotor non tralascia davvero nulla.

Tutto questo peraltro ha fatto da sfondo a un inarrestabile processo di evoluzione democratica del paese reale: e anche qui Gotor non dimentica affatto le conquiste sociali nel mondo del lavoro, nei rapporti tra i sessi e tra le generazioni, e più in generale nella vita civile, che gli attentati non fermarono affatto, anzi, modificando profondamente i rapporti di forza tra i partiti e portando il Pci alle porte della stanza dei bottoni. Poi il caso Moro, su cui l’autore in questi anni ha già scritto molto.

E qui la partita, già complicata di suo, diventa un autentico ginepraio, perché Gotor inscrive quei tremendi 55 giorni e il loro esito tragico in una vischiosa rete di mosse che, paradossalmente, appaiono obbligate e incomprensibili allo stesso tempo, oltre che di interessi contrapposti e inconfessabili, oggi come allora. Lì, forse, già si chiusero in un certo senso gli anni Settanta italiani, visto che da quel momento in poi il sistema politico iniziò ad avviarsi, con approssimazioni successive, in direzione del pentapartito che avrebbe segnato i “dorati” anni Ottanta.

Di sicuro, è in quest’ultima fase temporale del decennio che sulle macerie del disegno di Moro e Berlinguer iniziarono a dispiegarsi poteri occulti come quello della P2, in termini di penetrazione nelle istituzioni e di rapporti con la criminalità organizzata. Che a sua volta alzò tragicamente il tiro, con le uccisioni dei magistrati Terranova e Costa, del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, fino al generale Dalla Chiesa. Morti per mano di mafia a corollario di delitti altrettanto “eccellenti” (Pecorelli, Ambrosoli, prima ancora Pasolini) e di un ciclo di destabilizzazione attraverso stragi e delitti politici iniziato nel 1969, «di una ferocia endemica, perfida, selettiva, reiterata nel tempo»,  scrive Gotor, «un sordo rumore di sottofondo che ha inevitabilmente influenzato la storia della Repubblica e la qualità della democrazia che abbiamo vissuto».

A conferma del rigore dell’opera, innerva Generazione Settanta la costante attenzione da un lato ai dati economici del paese e, dall’altro, alle dinamiche (che oggi definiremmo bizantine) relative alla formazione dei vari governi. L’autore ha però il merito di farsi leggere con costante curiosità anche da chi quelle vicende le conosce, per averne già letto o per averle vissute: l’inserimento di elementi poco noti e rivelatori, o comunque fin qui un po’ sfuggiti a storiografi e giornalisti, è infatti continuo, grazie all’ampio utilizzo di documentazione anche giudiziaria. Il che porta Gotor a spingersi pure in quella scivolosa terra di nessuno che sta tra la verità storica e quella giudiziaria.

Verità storiche e processuali

FILE - In this file photo taken on Aug. 2, 1980, people search debris after a powerful bomb blasted the train station of Bologna, Italy. As Europe worries over resurgent far-right extremism in the aftermath of Norway's massacre, Italy marked the anniversary Tuesday, Aug. 2, 2011 of one of postwar Europe's worse terrorist attacks, a bombing in Bologna's railway station blamed on neo-Fascists that killed 85 people and wounded 200. Prosecutors blamed the attack on far-right extremists seeking to undermine Italy's democracy. But speakers at the commemoration of the 31st anniversary called on the government to release documents that are still secret to shed further light on the attack. (AP Photo)

Ne è un buon esempio il suo approccio alla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, la più “fresca” anche in termini processuali, visto che l’ultima sentenza (la condanna all’ergastolo in primo grado di Paolo Bellini) è dello scorso aprile.

Qui Gotor non si fa incantare dalle sirene della cosiddetta “pista palestinese”, che anzi liquida in poche righe, ma un po’ sorprendentemente integra le risultanze giudiziarie (le responsabilità dell’estrema destra, con sentenze passate in giudicato) in uno scenario comunque di stampo mediorientale, con iscritta la strage di Ustica e con l’indice puntato su Gheddafi.

Sono pagine destinate probabilmente a far discutere, posto che nell’intera vicenda giudiziaria mai si fa cenno a una “pista libica” nei termini ipotetici proposti da Gotor, ma visto soprattutto che l’autore sembra ritenerla non in contraddizione con la colpevolezza dei vari Mambro, Fioravanti e Ciavardini (oltre che di Cavallini e Bellini in primo grado).

Il che sollecita una domanda: fino a che punto la verità storica, o presunta tale, può contraddire con efficacia quella processuale? Detta meglio, in altri termini: davvero sempre e comunque il rigore della ricerca storica può superare quella dei pubblici dibattimenti?

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