La novità più importante della nuova normativa che entra in vigore dal 2026 è la possibilità di chiedere due anni di congedo oltre i 180 giorni di malattia. Ma senza retribuzione, né contribuzione figurativa. Il rischio che a farne ricorso sia solo chi può permetterselo. Per le associazioni dei malati è un passo avanti, ma solo a metà
Dal 1° gennaio 2026 chi è colpito da una patologia oncologica, cronica o invalidante potrà chiedere fino a due anni di congedo aggiuntivo dopo i 180 giorni di malattia. Lo prevede la legge 106/2025, pubblicata in Gazzetta ufficiale il 25 luglio 2025. Il posto di lavoro è garantito, lo stipendio no. Non c’è retribuzione, non maturano anzianità né contributi, il Tfr resta fermo. La continuità previdenziale è rimessa ai versamenti volontari: chi può permetterseli tiene insieme biografia e busta paga; gli altri restano sospesi, tra salute e povertà.
La retorica della “tutela rafforzata” si scontra quindi con la materia dei conti domestici. In fabbrica come in ufficio, il congedo lungo rischia di diventare un privilegio per pochi. In assenza di una contribuzione figurativa automatica, due anni “vuoti” oggi possono significare un taglio domani, nel momento del calcolo della pensione. E il tempo della malattia, che dovrebbe essere protetto, diventa una parentesi onerosa da colmare a proprie spese.
Non è una soluzione
La legge aggiunge infatti 10 ore annue retribuite per esami, terapie e visite, con copertura figurativa. Dieci ore: poco più di una giornata al mese, quando un ciclo di chemio occupa settimane e il follow-up dura anni. È un segnale, non una soluzione. Al rientro, il lavoro agile è riconosciuto come priorità e non come diritto: vale «se compatibile» con l’organizzazione decisa dal datore. La porta è socchiusa, ma la chiave resta nella stessa mano.
L’accesso alle tutele è filtrato dalla soglia di invalidità pari o superiore al 74%. È la riga che separa chi entra da chi resta fuori: pazienti in terapia attiva, con effetti collaterali pesanti, possono non raggiungerla e dunque non vedere riconosciuto il bisogno. La misura che annuncia inclusione riparte quindi da un criterio selettivo, distante dalla clinica reale, dove la capacità lavorativa oscilla con le cure, non con una percentuale fissa.
Il quadro è ancora più fragile per gli autonomi “continuativi”: la 106 consente la sospensione dell’attività, senza sospensione del contratto, fino a 300 giorni l’anno, ma senza indennità. Si tutela il rapporto, non il reddito. A valle, i caregiver e i genitori di minori con patologie gravi restano stretti tra iter di accertamento lunghi, organizzazioni rigide e la pratica quotidiana del “fai da te”.
Il capitolo risorse dice molto della gerarchia delle priorità: 20,9 milioni nel 2026, crescita lenta fino a 25,2 milioni annui dal 2035. Una cifra che fa sistema solo sulla carta. Nei luoghi di lavoro, intanto, tutto dipende da circolari attuative e contrattazione: l’Inps deve chiarire documentazione, flussi di conguaglio, compatibilità con altri istituti; le amministrazioni e le aziende dovranno definire criteri trasparenti per dichiarare «non compatibile» lo smart working, altrimenti prevarranno abitudini e umori.
Passo avanti a metà
Cgil e Inca parlano di avanzamento “a metà”: bene l’estensione del tempo, ma senza contributi figurativi sui 24 mesi e con una soglia alta, l’impianto scarica il costo della cura su chi è malato. Le associazioni dei pazienti riconoscono «uno spiraglio», ma ricordano l’ovvio: curarsi non deve diventare una scelta di censo. Un lavoratore di 40 anni che utilizza l’intero congedo, spiegano i patronati, si ritrova con due anni di buco da colmare o con la prospettiva di un assegno futuro più leggero. Per molti, già oggi, la soluzione concreta è rientrare troppo presto, tentando di conciliare infusioni e badge, farmaci e cartellini.
Nella pubblica amministrazione la sostituzione del personale assente resta il nodo operativo: scuole e sanità conoscono bene cosa significa coprire i turni senza organico aggiuntivo. Nel privato peserà la taglia dell’azienda: le grandi strutture possono organizzare rientri graduali e postazioni ibride; le piccole, spesso, non hanno margini né strumenti. La geografia delle tutele rischia di seguire quella delle opportunità, non quella dei diritti.
La vecchia 104 viene evocata come fondale, ma la 106 non ne è il salto: cambia il numero, non la logica. Il legislatore allunga il tempo dell’assenza, ritocca i permessi, sfiora il lavoro agile. Non entra là dove servirebbe: una copertura contributiva automatica sui periodi lunghi, criteri clinici che superino il dogma della percentuale, un diritto effettivo al lavoro agile con onere motivazionale serio in capo al datore. Nel frattempo, cresce il rischio di contenzioso: sulle soglie d’invalidità, sulle idoneità parziali, sul diniego di smart working non adeguatamente giustificato.
Quando il 9 agosto 2025 la legge è entrata in vigore, si è detto: è un primo passo. È vero. Ma i passi si misurano in diritti esigibili e in risorse. Finché i 24 mesi resteranno senza salario e senza contributi automatici, finché lo smart working sarà una corsia preferenziale e non una strada percorribile, finché una soglia del 74% terrà fuori bisogni reali, la 106 sarà una riforma con più promessa che sostanza. E il tempo della cura, quello più prezioso, continuerà a gravare dove pesa già abbastanza: sulle spalle dei malati.
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