Giorgia Meloni lo ha definito un errore di trascrizione, sarà. Tuttavia il cambio di ministero tra Gilberto Pichetto Fratin e Paolo Zangrillo non muta la sostanza: il prossimo ministro con delega all’ambiente ed energia è di Forza Italia. Un problema non da poco. Dopo le parole “rubate” a Silvio Berlusconi in occasione di una riunione con gli eletti, come Radicali abbiamo sottolineato l’inopportunità di dare i dicasteri degli Esteri e della Transizione ecologica (già scomparsa) al partito dell’ex premier. Della Farnesina ne hanno parlato tutti, dell’energia quasi solo noi. Vediamo il perché della nostra richiesta.

L’esposizione dell’Italia al gas russo, tramite Eni, è destinata praticamente a scomparire entro il 2024-25, secondo la più recente comunicazione agli investitori del cane a sei zampe, dopo essere scesa a circa il 30 per cento delle importazioni complessive di gas l’anno scorso. Ma non è stato sempre così.

La presenza di Eni in Russia risale agli anni Sessanta del secolo scorso, quando il gruppo fondato da Enrico Mattei iniziò a importare greggio in Italia. Da allora, la rete dei suoi investimenti nel paese e di accordi con società russe si era estesa molto, fino all’invasione russa dell’Ucraina.

L’impronta del gas russo

A cavallo del millennio, l’assiduità dei rapporti energetici fra Italia e Russia fu alimentata soprattutto da due figure chiave: Silvio Berlusconi, dal 1994 al 2012 a più riprese presidente del Consiglio e amico personale del leader russo Vladimir Putin, e Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni dal 2005 al 2014, nominato alla carica da uno dei governi presieduti da Berlusconi.

Secondo quanto riportato da Repubblica in quegli anni il precedente capo di Eni, Vittorio Mincato, non si voleva prestare a presunti pagamenti gonfiati dalla presenza di intermediari vicini a Berlusconi per l’import di gas russo. E sarebbe stato per questo che Mincato fu rimosso e sostituito da Scaroni, che poi avrebbe invece firmato gli accordi gonfiati.

Questo episodio avrebbe dato l’avvio a legami sempre più stretti sulle importazioni di gas russo verso l’Italia con contratti a lungo termine, alimentando a livello sotterraneo non solo progetti di nuovi gasdotti, ma anche tensioni economiche e geopolitiche con gli Stati Uniti.

Il caso di South Stream

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È il caso, iniziato nel 2007, del gasdotto South Stream, da far passare sotto il mar Nero al costo di 15,5 miliardi di euro, circa il doppio del progetto rivale Nabucco, più gradito agli Usa. Solo nel 2014, a lavori già iniziati, il progetto naufragò, anche a causa delle pressioni statunitensi dopo l’annessione russa della Crimea e le prime sanzioni a Mosca.

Purtroppo, pure senza South Stream, negli anni successivi, la dipendenza italiana ed europea dal gas russo è andata aumentando. Anche per via del calo delle importazioni dalla Libia, dopo la caduta di Gheddafi nel 2011. E anche a causa della decisione della Germania di passare gradualmente dal carbone al gas, ritenuta – all’epoca – l’unica scelta di buon senso massicciamente praticabile per economicità e prossimità geografica, così da soddisfare il fabbisogno elettrico di paesi a forte industrializzazione, come appunto Germania e Italia.

Accordi di importazione di gas a parte, «l'attuale presenza di Eni in Russia è marginale», si legge sul sito della società romana, che intende cedere la propria quota del 50 per cento nel gasdotto Blue Stream.

Le scelte berlusconiane

A prescindere dagli impegni futuri, però, quel che è certo è che negli ultimi dieci anni il nostro paese ha negligentemente puntato troppo – e continua a puntare tuttora – sul gas e non abbastanza sul rafforzamento dell’efficienza energetica e sullo sviluppo delle energie rinnovabili.

Tali scelte, impostate da Berlusconi e Scaroni e seguite da molti governi e top manager successivi, hanno creato le condizioni per la gravità dell’attuale crisi energetica, che sarebbe stata molto meno acuta se non ci si fosse affidati così tanto non solo alla Russia, ma alle fonti fossili in genere.

Nonostante il rapporto stretto tra Berlusconi e Putin soprattutto sul gas, Meloni ha deciso di dare il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica a Forza Italia. Ma al peggio non c’è mai fine, infatti c’è di più.

Gli “amici” separatisti

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Era il 2017 quando i Radicali torinesi dell’associazione Aglietta si schierano contro l’apertura a Torino di un “centro di rappresentanza della Repubblica popolare di Donetsk in Italia”, avvenuta il 14 dicembre del 2016. Igor Boni e Silvja Manzi dichiararono: «La cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk è un territorio occupato dell’Ucraina, che ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza e non è riconosciuto alle Nazioni unite né dall’Unione europea e neppure dall’Italia».

Il centro torinese mirava, come venne sottolineato dai promotori, «al riconoscimento internazionale della neonata repubblica attraverso una rete di relazioni diplomatiche con le istituzioni italiane». All’inaugurazione del centro parteciparono esponenti di spicco del centrodestra piemontese come i capogruppo regionali di Lega, FI e FdI, Gianna Gancia, Gilberto Pichetto e Maurizio Marrone. Sì avete letto bene, Gilberto Picchetto Fratin, il nuovo ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica. Che altro aggiungere?

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