I racconti sulle elezioni del presidente della Repubblica sono pieni di falsi miti e forse il più radicato è quello che nessun capo dello stato sia mai stato tentato dal doppio mandato. In realtà l’eccezionalità sta nel fatto che a nessuno dei predecessori di Giorgio Napolitano (che molto più di lui aspiravano al bis) sia riuscito di centrare la seconda elezione.

Del resto la Costituzione nulla dice su eventuali limiti ai mandati, e nel silenzio c’è un implicito assenso. Non solo: ad accendere l’ambizione dei presidenti – soprattutto di quelli che avevano preso parte in prima persona ai lavori di redazione della Carta – c’erano i resoconti del dibattito in assemblea costituente. In tema di rieleggibilità, infatti, comunisti e democristiani si trovarono d’accordo: Palmiro Togliatti prese la parola per dirsi contrario alla preclusione, Aldo Moro propose di omettere qualsiasi riferimento nel testo dell’articolo. L’esito finale fu quello di lasciare indefinita la questione.

Ecco che, per i presidenti che furono anche politici della Prima repubblica e quindi erano abituati a una politica a scacchiera fatta di caselle da occupare, quella di fermarsi per due settennati sul Colle più alto veniva considerata un’ipotesi più che concretizzabile.

Nessuno di loro lo ha mai detto pubblicamente, né ha lasciato testimonianza scritta. Ma delle singole ambizioni si trova traccia nei racconti dei quirinalisti e nelle biografie dei politici, che restituiscono un’immagine più rotonda di uomini che erano sì arbitri della Costituzione, ma non privi d’ambizione.

Enrico De Nicola

Ad ambire non a uno ma a due rinnovi della fiducia dell’assemblea è stato il primo presidente, Enrico De Nicola. È stato scelto per fare il presidente provvisorio della neonata repubblica dopo il referendum del 1946 e il suo nome è stato il frutto di uno strano gioco.

Perché ci fosse una pacificazione nazionale dopo il passaggio dalla monarchia alla repubblica, Togliatti per il Pci, Pietro Nenni per il Psi e Alcide De Gasperi per la Dc concordarono che il primo presidente avrebbe dovuto essere un monarchico. La scelta cadde su Enrico De Nicola, avvocato napoletano pignolo fino all’eccesso, tanto da fare impazzire i suoi segretari e lo stesso De Gasperi. Si era stabilito che il mandato provvisorio dovesse essere brevissimo: meno di due anni, con scadenza il 25 marzo 1947. E De Nicola, fermo nel suo formalismo, si dimise costringendo l’assemblea costituente a rieleggerlo sempre come presidente provvisorio. Il gioco, però, non gli riuscì quando più contava, ovvero dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948.

Lui aspirava a diventare il primo presidente della Repubblica, forte anche dei due anni già trascorsi al Quirinale da presidente provvisorio, ma a impedirglielo fu il costante scontro con De Gasperi. Il momento in cui perse definitivamente il sostegno della Dc e quindi la rielezione fu sùbito dopo la Conferenza di pace di Parigi. Fino all’ultimo si rifiutò di firmare il trattato, considerando troppo punitivi gli esiti contrattati da De Gasperi. Alla fine firmò, ma l’impuntatura contro il leader democristiano gli costò la rielezione, che pure era sostenuta da comunisti e socialisti.

Luigi Einaudi

Anche nel caso del secondo monarchico e primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, a far saltare il secondo mandato furono dissensi con la Democrazia cristiana.

La sua elezione era andata in porto a scapito della candidatura di Carlo Sforza, prediletta da De Gasperi. A determinare il veto sul suo nome per la conferma, però, fu il suo atteggiamento intransigente nel far rispettare l’autonomia del governo.

Nel 1954, infatti, il presidente del Consiglio era il suo pupillo Giuseppe Pella, che aveva formato il primo “governo del presidente” della storia della repubblica. Pella voleva fare un rimpasto e sostituire alcuni ministri, ma la Dc non era d’accordo e si oppose. Einaudi, allora, chiamò al Quirinale i due capigruppo del partito e lesse una nota in cui ricordava che la scelta dei ministri spettava solo al presidente del Consiglio. Il risultato fu la crisi del governo Pella, la nascita del primo governo Fanfani e il mancato sostegno democristiano per un secondo mandato a Einaudi.

Giovanni Gronchi

Il primo presidente democristiano, Giovanni Gronchi, venne eletto nel 1955 senza essere il candidato ufficiale della Dc fino al quarto scrutinio. Il segretario Amintore Fanfani, infatti, gli preferiva il presidente del Senato Cesare Merzagora.

A incidere sui suoi sette anni e a bloccarne ogni velleità di rielezione fu la sua eccessiva autonomia, anche in contrasto con la linea del governo, nella gestione dei rapporti istituzionali in politica estera. Fu il primo presidente a viaggiare fuori dall’Italia, ma a penalizzarlo furono il dialogo freddissimo con gli Stati Uniti ed eccessivamente disteso invece con l’Unione sovietica di Nikita Krusciov. Per la Democrazia cristiana, che non lo aveva amato da presidente, proporne la rielezione era impensabile, anche se Gronchi l’avrebbe cercata. E poteva anche contare su uno sponsor di eccezione: il democristiano presidente dell’Eni, Enrico Mattei. Secondo il giornalista dell’Europeo Renzo Trionfera, Mattei avrebbe messo a disposizione di Gronchi un miliardo di lire per comprare il consenso dei grandi elettori necessari a confermarlo al Quirinale.

Sandro Pertini

Anche il primo presidente socialista, Sandro Pertini, considerato il più amato dagli italiani e anche quello eletto con la maggioranza più estesa della storia della repubblica, avrebbe ben gradito altri sette anni al Quirinale.

Come nel caso dei suoi predecessori democristiani, anche per Pertini la causa della mancata rielezione fu lo sgambetto del suo stesso partito. Il presidente partigiano, innamorato delle folle, che rese popolare la presidenza della Repubblica, infatti, era inviso al segretario del Psi, Bettino Craxi, che pure fu costretto a votarlo.

Nel 1985, fresco ottantanovenne alla fine del primo mandato, Pertini era deciso a voler rimanere al Colle: sapeva che per farlo gli servivano i voti dei comunisti e lavorò alacremente per guadagnarsi le simpatie della sinistra. Tuttavia, le sue sfuriate erano notissime e temute e una di queste scoppiò durante una visita di stato in Argentina, in un volo pieno di giornalisti e telecamere. A trasmettere tutto, però, non fu il Tg1 (notoriamente considerato in quota democristiana, nella “lottizzazione” dei canali della Rai), ma il Tg2 in quota socialista. Secondo le malelingue si trattò della vendetta di Craxi, che mise il veto sul suo nome e contro Pertini si schierarono anche i democristiani, che volevano riportare uno dei loro al Colle e ci riuscirono con Francesco Cossiga.

L’eccezione di Napolitano

L’unico a vincere la maledizione del doppio mandato è stato Giorgio Napolitano. Il primo presidente comunista, che avrebbe serenamente passato la mano al suo successore, è stato trattenuto al Colle dall’impasse politica in cui si sono trovati i partiti nella Seconda (o forse Terza) repubblica.

Per i partiti della Prima repubblica l’ipotesi di una rielezione era stata sempre tenuta presente ma mai attuata per ragioni contingenti di lotte interne, per i nuovi partiti post-guerra fredda invece l’opzione sembrava sparita dal dibattito politico, almeno fino allo stallo del 2013.

Nel caso di Napolitano, infatti, sono stati i partiti (e i rappresentati delle regioni) a chiedergli di restare al Colle, rispolverando l’armamentario del silenzio della Costituzione e resuscitando quel mandato bis che tanto era ambìto dai presidenti del Novecento. Impotenti davanti al drammatico stallo delle camere in seduta comune e ai franchi tiratori che avevano impallinato già nomi del calibro di Romano Prodi e Franco Marini, i leader dei partiti non vedevano altra strada di pacificazione. Mai prima del 2013 si era visto un tale via vai di rappresentanti di tutto l’arco costituzionale, dentro e fuori dal Quirinale.

All’inizio, Napolitano sembrava inamovibile e preoccupato di rovinare con un secondo mandato l’ottimo lavoro dei sette anni precedenti. Poi, davanti alle insistenze dei leader e a una situazione oggettivamente bloccata nell’aula della Camera, accettò. Dettò però le sue condizioni: sùbito un esecutivo di dialogo, immediatamente una nuova legge elettorale e riforme istituzionali: così si formò il governo Letta.

Il suo mandato bis ha aperto un precedente eccezionale nella storia della presidenza della repubblica e anche nelle menti degli aspiranti registi delle prossime elezioni. La Costituzione lo permette, si è sfatato il mito della non rieleggibilità: ora anzi l’opzione è tornata di moda.

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