C’è chi vede nella Costituzione italiana una reliquia sacrale, oggetto di austera devozione, e chi invece ne lamenta un’obsolescenza che ne fa un relitto più che una reliquia. Da parte di chi s’iscrive a quest’ultimo partito, l’argomento più sostenuto è che la Costituzione emersa nel Secondo dopoguerra era comprensibilmente timorosa della concentrazione dei poteri nelle mani del governo: la Carta del 1948 è satura di ansie da confino, che la costringono a un bilanciamento dei poteri prossimo alla paralisi, nella smania delle garanzie salvifiche di un presidente della Repubblica super partes.

L’argomento prosegue con una presa d’atto: oggi che il pericolo di totalitarismi incipienti è roba da programmi di intrattenimento, è bene che il Paese recuperi la capacità di scolpire il proprio destino. Serve un indirizzo politico forte, in grado di indicare nuovi fini collettivi e di solcare il cammino per la loro piena realizzazione. Detto argomento si puntella infine di ampi richiami ai princìpi più intimi (e problematici) della democrazia: un mandato di governo forte, che sia presidenzialismo o premierato, deve poter contare sull’elezione diretta da parte del popolo.

I dispotismi

Nondimeno, rispetto alle iniziative di riforma costituzionale, mi paiono fuori luogo tutte le grida, che siano di giubilo o di scandalo. Può davvero una forma di governo, da sé sola e comunque ben regolata da una Costituzione democratica, indirizzare un Paese verso nuovi dispotismi? La risposta è no. E d’altro canto, come sostengono alcuni studi in ambito di diritto costituzionale comparato, le forme pure di presidenzialismo e di parlamentarismo esistono solo sulle pagine dei manuali.

Con una buona dose di approssimazione, la differenza tra i due sistemi segue un criterio di fondo, ossia quanto la vita e la durata del governo dipendono dal potere legislativo. Se il governo può essere rimosso dal Parlamento per motivazioni politiche, il sistema può essere considerato parlamentare. Nel caso opposto, è detto presidenziale.

Eppure, i casi di forme miste superano quelli delle forme pure. Insomma, non solo esistono sistemi liberal-democratici ben funzionanti – per quanto bene possa funzionare una democrazia d’oggi – che s’impiantano su sistemi presidenziali più o meno rigidi; ma i sistemi presidenziali incontaminati da venature parlamentari sono in ultima analisi molto pochi. Ha senso quindi evocare gli spettri del neofascismo, o quelli di un rinnovato Piano di rinascita democratica, quando la destra avanza progetti, al momento fantasie, di riforme in senso presidenziale?

Il protocollo morale

La risposta di chi scrive è che la mobilitazione di tanto cupi spettri non ha senso, nella misura in cui si ritiene che una forma di governo sia di per sé in grado di avviare grandi trasformazioni sociali. Ma sottolineo il “di per sé”. Il problema, infatti, sta in una più tacita saldatura (forse inavvertita, eppure non del tutto) tra i progetti di riforma e la concezione a questi sottesa di cosa sia un governo e quali siano i suoi compiti. In altri termini, il rischio più serio si annida non tanto nella possibile riforma, quanto nell’atmosfera culturale che la nutre.

Non passa giorno in cui membri dell’esecutivo non diano indicazioni su come si deve vivere, che cos’è la normalità, qual è l’unica forma di famiglia ammissibile, come e dove questa deve allevare la prole, come mantenere incorrotta la nostra italianità, come tener vivo il progetto di nazione che sta a fondamento del Paese, il colore dei granchi più indicato e via dicendo. Insomma, ogni giorno si compita l’abbiccì di un protocollo morale, individuale e collettivo, di cui il governo si auto-nomina tutore, persino quando alcuni suoi membri, con il pretesto del libero pensiero, esprimono sostegno esplicito a certe irricevibili e sguaiate prese di posizione su minoranze di vario genere e colore.

Il pericolo della saldatura sopra evidenziata è tanto più inquietante perché la solidità e la robustezza di un esecutivo a tendenza autocratica non dipendono tanto dalla forza muscolare, che infruttuosamente accende animi e riflettori. Piuttosto, davvero solido è quel regime che riesce a far attecchire nella cittadinanza una concezione della vita quanto più condivisa e omogenea, che conta cioè su un tessuto sociale animato da valori e principi comuni, da cui possano scaturire modi di vita collettivi e dunque leggi volte a tutelarli.

A me pare, quindi, che oggi il vero terreno di resistenza politica, in cui si può decidere del destino della nostra democrazia, sia quello sfuggevole e opaco della presunta “normalità” e del ruolo dell’esecutivo rispetto ad essa. L’idea più insidiosa e allarmante, ampiamente difesa a destra (talora a sinistra), è che il diritto debba incorporare modelli di condotta che facciano da standard e indichino la maniera corretta di perpetuare la forma di vita che abbiamo ereditato.

Insomma, il pericolo è culturale in senso forte, relativo cioè alla sottaciuta ma vigorosa tendenza a legare la riforma a un progetto di pulizia, oltreché polizia, morale.

Le minoranze

Beninteso: nessun/a rappresentante del governo in carica ha mai sostenuto, né credo sosterrà mai, l’utilità di reprimere le minoranze. Il punto non è la possibile repressione, quanto il ben più nocivo convincimento che la minoranza sia un’eccezione da tollerare.

L’idea, ad esempio, che, per quanto Vannacci abbia ragione sulle intemperanze dei pride e sullo scempio etico ed estetico dello schwa, un Governo debba assolvere due compiti essenziali: quello fondativo e primario di vivificare una forma di vita normale, puntellata da leggi ad aspirazione universale (come quella sulla GPA), e quello, vincolato alle forme democratiche, di proteggere certe vistose escrescenze, anormali ma tollerabili, se rispettose di certi limiti fissati dalla coscienza delle persone perbene. Insomma, il rischio, ben più serio che quello di un’irrealistica autocrazia neofascisteggiante, è il ritorno di un esecutivo plenipotenziario e censore, in grado di utilizzare il diritto come portentosa macchina dell’esclusione. Che sia di destra, di centro o di sinistra.

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