La parola d’ordine c’è: presidenzialismo. A mancare è tutto il resto: un testo scritto nero su bianco, il percorso di approvazione certo e anche un via libera compatto della maggioranza che vada oltre lo slogan.

Ad esclusione della Lega, è un dato storico che il presidenzialismo sia un tema portante nella dialettica del centrodestra. Se Silvio Berlusconi ne parla dalla sua discesa in campo nel 1994, la destra da cui proviene Fratelli d’Italia ne ragiona da ancora prima: alla fondazione Tatarella è conservata una rivista del 1992 dal titolo Repubblica presidenziale, con approfondimenti di Altero Matteoli e dell’attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa, corredati da un’intervista al leader radicale Marco Pannella.

Come il concetto venga declinato, però, è ancora fumoso: c’è la versione di Berlusconi, che durante la campagna elettorale aveva teorizzato le «dimissioni di Mattarella quando la riforma verrà approvata», immaginando l’elezione diretta del presidente ma senza un sostanziale cambio di funzioni, tanto che poi aveva precisato che «Mattarella poi potrebbe anche essere rieletto».

FdI, invece, ragiona su un semipresidenzialismo alla francese: il potere esecutivo condiviso dal presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale a doppio turno, e dal primo ministro, nominato dal primo sulla base dell’esito elettorale.

In ogni caso «si tratta di una grande riforma di sistema che Meloni e la destra hanno da sempre a cuore. Per questo ci sarà, ma avrà realisticamente un percorso approvativo di medio-lungo termine, guardando alle europee del 2024», è il ragionamento del presidente della fondazione Tatarella, Francesco Giubilei.

Con un obiettivo di fondo: aumentare il potere dell’esecutivo e il suo legame con l’elettorato in ottica di stabilità, sacrificando la democrazia parlamentare.

Se dal punto di vista concreto un testo ancora non c’è, solo una proposta di legge costituzionale della precedente legislatura depositata a prima firma di Meloni, il dibattito interno al governo si dipana su due fronti.

Il percorso in parlamento

Il primo è quello dell’iter per l’approvazione. Si tratta di una riforma costituzionale, dunque con tempi necessariamente lunghi a causa della doppia lettura a Camera e Senato e soprattutto l’ipotesi di referendum costituzionale in caso di mancato raggiungimento della maggioranza qualificata.

Per questo il primo passo è capire se esiste la disponibilità delle opposizioni di costituire una bicamerale, così da coinvolgere tutte le parti politiche e potenzialmente scongiurare l’eventuale referendum costituzionale che fece saltare l’Italicum di Matteo Renzi.

L’ipotesi in realtà non convince Forza Italia. Su Repubblica il presidente della commissione Affari costituzionali al Senato, Nazario Pagano, ha chiesto «un’istruttoria parlamentare» e non una bicamerale costituzionale, «che comporterebbe almeno un anno e mezzo solo per porla in essere».

L’ulteriore alternativa, ad oggi più probabile, è quella di una proposta che venga dal governo. Secondo fonti di FdI, la stesura di un primo testo sarebbe nelle mani del sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro di Meloni, Giovanbattista Fazzolari, in stretto contatto con la presidente del Consiglio.

Tuttavia, formalmente il ruolo di coordinamento spetta alla ministra per le Riforme, l’azzurra Elisabetta Casellati, che ha fatto sapere di essere al lavoro per «ascoltare tutte le forze politiche». Poi arriverà una proposta del governo, auspicabilmente entro l’estate.

«Il profilo della riforma non è ancora stato delineato, ma se ne ragiona nelle sedi di governo. Quando ci sarà un testo, noi saremo pronti» ha confermato il capogruppo di FdI in commissione Affari costituzionali alla Camera, Alessandro Urzì, il quale ha anche aggiunto che «non temiamo e anzi vorremmo una convalida referendaria della riforma, nel caso in cui non ci sia una larga convergenza del parlamento».

La questione referendaria, in realtà, potrebbe essere scampata. La richiesta di referendum, infatti, richiede la raccolta di 500mila firme o il sì di cinque consigli regionali, come nel caso del referendum sulla riforma Boschi. Se il centrosinistra perdesse il Lazio, però, guiderebbe solo quattro regioni: Campania, Puglia, Emilia Romagna e Toscana.

L’autonomia

Al netto di come procederà l’approvazione, esiste prima di tutto una questione politica ineludibile su cui il centrodestra si sta scontrando sottotraccia. L’accordo di governo tra FdI e Lega, infatti, poggia sulla doppia approvazione di presidenzialismo da una parte e autonomie regionali dall’altra.

Le due gambe, però, rischiano di essere una più corta dell’altra. Se per la riforma presidenziale serve una legge costituzionale con iter di approvazione aggravato, per la riforma dell’autonomia basta un disegno di legge ordinario che poggia sulla riforma costituzionale del titolo V del 2001 e può correre molto più velocemente.

Il ministro per l’Autonomia, Roberto Calderoli, infatti, ha già presentato il suo progetto, che ha fatto storcere il naso ai governatori meridionali e messo in allarme il Quirinale. Secondo i desiderata leghisti, dovrebbe arrivare in consiglio dei ministri a gennaio, salvo strategici rallentamenti.

I rischi di questa doppia velocità sono due: che la Lega porti a casa la sua riforma caratterizzante prima del principale partito di governo, ma soprattutto che l’autonomia leghista neutralizzi proprio l’accentramento dei poteri in capo all’esecutivo nazionale.

Per questo, da parte di FdI è arrivato un freno all’iniziativa di Calderoli, in attesa che avanzi anche il progetto presidenziale. «È ineludibile che le due riforme abbiano tecnicamente tempi diversi, ma non possono esserci due velocità sulla volontà politica di arrivare a entrambi gli obiettivi», sintetizza Urzì.

Tutti, però, predicano il sangue freddo. FdI non vuole alzare oltre i toni con la Lega ed è stato il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, a stoppare gli attacchi al dinamismo di Calderoli: «Non è una forzatura l’iniziativa di un ministro che è lì per fare proposte nel più breve tempo possibile».

Prima di passare dalla proposta all’approvazione, però, è una certezza che ci saranno degli aggiustamenti, sulla base dei rilievi dei governatori di centrodestra, in particolare sulle garanzie dei livelli essenziali delle prestazioni.

 

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